Casa sperimentale Perugini

Fregene è un villaggio di mare che vive su due livelli diversi. I riti balneari si svolgono ancora oggi all’ombra di un velario secolare di pini marittimi, piantati originariamente da Papa Clemente IX alla metà del Seicento per proteggere le colture della piana di Maccarese dai venti salmastri dannosi. A quasi trenta metri d’altezza, le chiome compatte si uniscono e s’intrecciano in un unico manufatto vegetale, così prezioso che già nel 1920 il Governo dichiarò la pineta Monumento Nazionale. Silenziosi e impassibili, sorretti da tronchi colossali che emergono come totem nel bel mezzo delle strade carrabili, i pini di Fregene sembrano appartenere a una dimensione altra rispetto alle geometrie astratte della città sottostante. Qui molte, moltissime case di villeggiatura saturano la griglia più o meno regolare di una lottizzazione serrata. Impossibile riconoscere nella Fregene di oggi quella Capalbio ante-litteram dove ancora nei primi anni ’60 si abbronzavano in relativo isolamento Fellini, Flaiano, Moravia, Lina Wertmüller, protetti dal dazio d’accesso alla pineta che confinava le masse turistiche sui lidi di Ostia e Torvaianica. La Belle Epoque di Fregene ebbe vita breve: in pochi anni l’arrivo di Elia Federici (il celeberrimo costruttore romano a cui si deve l’immenso isolato dei “palazzi Federici” di Una giornata particolare), la rimozione del pedaggio e l’apertura degli estivi dei più grandi nightclub della capitale segnarono l’inizio di un’epoca di grandi numeri, proliferazione edilizia e code senza fine sull’Aurelia (perché il ponte, quello, rimase e rimane tuttora uno solo). Alla fine degli anni ’60, una famiglia di architetti progettò un’architettura che viveva a cavallo delle due Fregene. Giuseppe Perugini, la moglie Uga de Plaisant e il figlio Rainaldo trasformarono la costruzione della loro casa di vacanze in un’occasione di sperimentazione tecnica, riflessione libera sugli spazi dell’abitare e dialogo con il contesto della pineta che lo stesso Rainaldo Perugini, oggi professore di storia dell’architettura, definisce come un vero e proprio “gioco di costruzioni a scala urbana”. La casa dei Perugini si compone in realtà di tre abitazioni sperimentali. L’edificio principale è la Casa Albero, un sistema interamente modulare di telai e piastre, appoggiate o sospese, per sempre incompiuto perché potenzialmente replicabile all’infinito. Le strutture in cemento armato a vista si compongono in una simmetria orizzontale, che si replica nei riflessi dello specchio d’acqua alla base dell’edificio e che potrebbe ripetersi verso l’alto fino a sfiorare i pini. . L’interno è uno spazio unico e caleidoscopico, dove i piani si moltiplicano e, grazie al peculiare sistema strutturale, il vetro può insinuarsi prepotente tra le superfici in calcestruzzo, fino a negare la connessione tra orizzontale e verticale. Lo sfalsamento e il dislivello tra i diversi moduli garantiscono la privacy della zona notte senza bisogno di pareti divisorie, mentre i bagni sono capsule arrotondate che emergono a sbalzo dal corpo principale, unica eccezione nella composizione cartesiana dell’edifico.

La Casa Albero sopraelevata, accessibile da un’unica rampa di scale che funzionava originariamente come un ponte levatoio, è nelle parole di Rainaldo Perugini la “casa non finibile” a cui fa da contrappunto la “casa monoblocco”, un’enigmatica sfera di cinque metri di diametro progettata per funzionare come un modulo abitativo autosufficiente. Al suo interno una struttura autoportante, mai costruita, avrebbe articolato gli spazi e supportato un satellite-toilette, anch’esso sferico. All’estremità opposta del giardino, la “casa ripetibile”, composta di moduli cubici di tre metri di lato, è un’ulteriore variazione sul tema dell’alloggio minimo. Inutilizzata da molti anni, la Casa Albero sarà presto riconvertita a museo e spazio per eventi. Sospesa per il momento nel tempo come nello spazio, tremendamente glamorous con le sue forme in bilico tra rimandi costruttivisti e fascinazioni extraterrestri, l’abitazione sperimentale dei Perugini resta soprattutto il frammento superstite di un’utopia, la testimonianza di un visione (anti-)urbana alternativa della pineta di Fregene che restò confinata all’interno di un solo lotto.

Story . Alessandro Benetti
Photo . Oliver Astrologo