Matilde Cassani

Per il primo numero del 2023 ospitiamo Matilde Cassani, tra le più interessanti e sperimentali della sua generazione, che lavora a cavallo tra installazioni temporanee, arte e architettura, raccolte in diversi interventi tra l’Italia, l’Europa e New York.
Matilde ha un curriculum trasversale, con esperienze d’insegnamento al Politecnico di Milano, a AA a Londra ed è stata recentemente fellow a Columbia Italian Academy a New York. Fa una serie di ricerche che trovo molto interessanti, perché indagano un mondo in profonda trasformazione attraverso una pratica artistica che coinvolge direttamente comunità, spazi e luoghi in modo inaspettato, lavorando anche sulla scoperta di contesti che apparentemente non guardiamo.

Luca Molinari
Prova a raccontarti e a tracciare un tuo percorso personale di ricerca attraverso alcune parole chiave che consideri importanti per rappresentare il tuo lavoro.
Matilde Cassani
Mentre studiavo ho capito che l’architettura era tra i miei interessi più grandi, ma il punto di partenza non era lo spazio, bensì l’uomo. I movimenti dell’individuo generano architettura. Comunità diverse, superdiverse si direbbe oggi, interpretano e disegnano la città costantemente. Tanti lavori dello studio hanno come punto di partenza l’uomo, in rapporto alla città. Non sono necessariamente un’architettura permanente, spesso sono architetture effimere o fotografie di un momento di vita urbana, che racconta le trasformazioni più profonde della città. La ricerca parte dall’individuo, per passare alla comunità e quindi a spazi più ampi, ai territori. Parte dal micro e arrivo al macro, potremmo definirlo “transcalare”, citando Andres Jaque.

L.M. Credo che sia interessante il fatto che lavori sulla dimensione del progetto con una forte tensione narrativa. Tu generi un progetto che produce delle conseguenze pubbliche e che mette in relazione figure molto diverse tra di loro. La transcalarità è anche comunitaria e oggi forse uno dei grandi temi è quello di rompere l’isolamento in cui siamo come individui e generare delle narrazioni che creino epiche comuni. Si tratta anche di lavorare su alcune parole che ci aiutano a rifondare questa dimensione collettiva. Per te cosa vuol dire lavorare su una narrazione comune, produrre contenuti che aiutino a rileggere il mondo che ci circonda?
M.C. Osservare i movimenti delle persone in un parco, in una piazza, suggerisce le esigenze della città del futuro. Un’idea di progetto tiene in considerazione questo aspetto di anticipazione che ha la città di per sé, il lavoro suggerisce futuri possibili, che in realtà sono delle interpretazioni, delle proiezioni a 5, 30, 100 anni.

L.M. Quando tu fai intravedere queste ipotesi del futuro in un presente diventa una scelta. È un tema politico, non trovi?
M.C. In epoca barocca si utilizzava l’idea di meraviglia, di festa, per anticipare i cambiamenti, politici, economici e sociali della città. Questo si può applicare a tutti i momenti storici, anche al nostro. Gli eventi raccontano risvolti di ogni tipo, anche politici.

L.M. Poco tempo fa ho visto una grande mostra molto bella sul senso e il ruolo della festa al Mak di Vienna e curata da Lilli Hollein.
La festa è indagata come meccanismo temporale, simbolico-politico, come laboratorio, come esercizio di professione e come relazione con il tempo.
In alcune delle tue installazioni, come quella per Manifesta a Palermo, il tema della festa diventa un espediente comune per far capire a chiunque quello che avviene in maniera immediata, ma genera qualcosa di sorprendente e meraviglioso, un tema che rallenta e ti fa riflettere. Raccontaci come il concetto di festa e celebrazione entrano nel tuo lavoro e diventano progetto in sé, espediente narrativo, retorico, sociale, che diventa un tratto comune, semplice e immediato che ti permette di entrare in qualcosa di inatteso con semplicità.
M.C. C’è sempre il rapporto con il pubblico, c’è la necessità di un’audience. Un’occasione di massa, crea un’architettura. Pensiamo ai recenti festeggiamenti dei mondiali in Argentina, la folla in festa riempiva aree vastissime, diventando spazio edificato. La festa crea uno spazio omogeneo. La folla pensa nello stesso modo, condivide uno stato d’animo, nonostante il singolo abbia obiettivi diversi; il messaggio, nel gruppo, è diffuso e facilmente interpretabile. È un momento di alleanza, temporanea, ma solida. Questo è ciò di cui parla “Tutto” a Manifesta 12 a Palermo, curata da Bregtje Van der Haak, Mirjam Varidinis, Andres Jaque, Ippolito Pestellini Laparelli.
Tutto è una festa di ispirazione barocca perché utilizza gli oggetti, gli strumenti e i luoghi del barocco siciliano. Nella Piazza dei Quattro Canti a Palermo si sono incontrati i visitatori di Manifesta, i passanti e i turisti. L’evento ha unito i pubblici e ha raccontato momenti diversi della storia della città. Le dominazioni straniere di Palermo, i suoi santi e le nuove popolazioni.

L.M. C’è un’altra parola che tu usi tantissimo, ed è Rituale. La ritualità si lega alla festa, è un termine antico che sembrava quasi svanito in Occidente, quando diventano ritualità laiche, molto più fragili, che con la fine delle grandi ideologie si sono completamente disperse. La ritualità alla fine è anche qualcosa di molto più profondo, al di là della definizione legata a una specifica religione o a uno stato culturale, è qualcosa che noi cerchiamo, che ci unisce e ci lega. Cosa vuol dire in questo secolo nuovo tornare a lavorare sulla ritualità? Che significato ha questo termine e come può essere riattualizzato in termini progettuali e di rigenerazione degli spazi?
M.C. La ritualità è una necessità dell’uomo. È confortante ripetere delle azioni quotidianamente o più volte durante la giornata. Appartiene da sempre all’uomo in relazione con il gruppo ed è ciò che genera l’urbanità.

L.M. È per questo che hai lavorato tanto sul tema del sacro e la città?
M.C. Sì, il tema del sacro e la città sono l’esempio più lampante, oggi. La necessità di riunirsi in preghiera di una comunità straniere in un contesto ospite, genera degli spazi anche molto spontanei, che crescono nel tempo, diventando più connotati, evidenti, simbolici. La ritualità della preghiera è l’esempio più semplice per spiegare come i movimenti dell’uomo generano lo spazio. Nel momento in cui in Europa le città sono passate da monoculturali a superdiverse si è capito chiaramente come lo spazio urbano fosse stato disegnato per essere monoculturale e che fosse messo in crisi da identità diverse che lo condividevano.

L.M. Il tema del sacro per te è iniziato tanti anni fa, quando hai fatto una residenza all’Akademie Schloss Solitude, poi l’hai portato a New York nella mostra di Storefront e ti ha accompagnato negli anni. Come è mutata nel tempo la tua percezione del sacro in rapporto alla città rispetto al punto di partenza?
M.C. Nel 2005 ho lavorato in Sri Lanka, dove quattro religioni convivono e hanno necessità spaziali diverse, chiaramente riscontrabili nei quartieri della città. Quando sono tornata in Europa ho cercato di capire come lo spazio urbano si stesse diversificando, questo processo sta avvenendo adesso, altrove è secolare.
Ho poi studiato le feste religiose straniere in Italia, soprattutto nella campagna Emiliana, dove i Sikh popolano le campagne e partecipano alla produzione del Parmigiano Reggiano.
Quest’anno ho lavorato su una strada nel Queens, a New York dove negli ultimi anni sono stati costruiti molti luoghi di culto: Moschee, Chiese Ortodosse, Gurdwara Sikh, Templi Indù, uno di fianco all’altro.
Recentemente è stata rinominata Ganesh Temple Street: questo perché il tempio Indù, nel tempo, si è ingrandito arrivando ad offrire oltre a spazi per la preghiera, anche servizi alla comunità: scuole, residenze per anziani, auditorium. È un luogo di culto nato come informale (il primo tempio era il salotto del fondatore), che si è formalizzato nel tempo. Nei luoghi in cui una cultura non è così diffusa, è il contenitore di tanti altri servizi, legati all’immigrazione, all’alimentazione e a tutte le attività sociali. Da nucleo negli anni ’90, il tempio è oggi il nome di una Via.
Al momento sto lavorando a una pubblicazione in cui si parla di come il momento festivo anticipi i cambiamenti della città. Con città intendo anche territori meno densi, come la campagna vercellese. Qui c’è più bisogno dell’uomo nella produzione del riso, che è diventata meccanizzata e avviene solo parzialmente in Italia. Non ci abita quasi nessuno – da qui il nome del progetto, curato da Paola Nicolin e prodotto da Aptitude. La scomparsa dell’uomo non significa però che non ci siano ritualità. Tra gli ultimi rimasti ci si riunisce per parlare della stagionalità, di raccolti e dei cambiamenti climatici che influenzano le tecniche di coltivazione.

L.M. Tu usi il tempo come materiale di progettazione, è uno degli elementi centrali del tuo lavoro e una delle materie più preziose della nostra vita, siamo sempre a corto di tempo. Tu in qualche modo generi delle situazioni in cui strappi il tempo alla pratica comune e generi quasi delle pietre d’inciampo, dei momenti in cui obblighi chi partecipa a fare cose inattese. Cosa vuol dire lavorare sul tempo nel progetto, per te? Che valore ha il tempo in una dimensione progettuale come la tua?
M.C. Il tempo è parte fondamentale del lavoro. Pensando al progetto di Vercelli, il tempo è la stagionalità. Il progetto consiste in una serie di miraggi di uomini, spaventapasseri, posizionati in punti diversi della campagna. Una serie di scatti fotografici mostreranno i cambiamenti del paesaggio legati alla semina, al raccolto, all’allagamento dei campi e alle stagioni. Il tempo sarà la parte necessaria del progetto. In questo, come in altri lavori, il giorno dell’inaugurazione è l’inizio di un processo che dura a lungo.

L.M. Nei tuoi lavori usi in maniera quasi ossessiva il tessuto. Materia morbida, apparentemente fragile, che cambia continuamente col tempo, la luce e l’aria. Forse è una scelta legata a un senso di impermanenza, fragilità del progetto temporaneo ed è un modo anche per renderla evidente. Prova a spiegarci, con alcuni esempi, perché hai usato spesso questa materia per dare forma a progetti di spazi pubblici, che hanno un tema di temporalità ma anche di resistenza, di dialogo con chi sta intorno e chi li usa.
M.C. Il tessuto subisce cambiamenti, non solo nel decadere ma anche nel muoversi, essendo un progetto “molle”. La definizione di progetto molle potrebbe essere applicata a tanti progetti. Sicuramente a Tutto, dove erano stati appesi alle facciate dei palazzi dei drappi di velluto ricamati con figure di Santi; ma anche Panorama, paesaggi astratti, modificati continuamente dalle azioni degli uomini che si muovevano all’interno dello spazio in cui erano appese. La tenda tripolina è parte di Birdflight a Museion, Bolzano, curata da Bart van der Heide, Andreas Hapkemeyer e Brita Köhler. Questo display consiste in una serie di soglie, tra una stanza e l’altra: pensiline colorate, tappeti, buio e luce, specchi che registrano il passaggio delle persone anche da lontano e tende che rimangono in movimento anche molto dopo il passaggio di qualcuno.

L.M. Ricordo anche gli stendardi fatti a Aarhus o a Prato, dove hai trasformato una simbologia quasi medievale in qualcosa di contemporaneo a cavallo tra tradizione e presenza attuale.
M.C. Per Oslo Triennale 2016, curata da Lluís Alexandre Casanovas Blanco, Ignacio G. Galán, Carlos Mínguez Carrasco, Alejandra Navarrete Llopis and Marina Otero Verzier, si era tentato di includere all’interno dell’araldica cittadina di Prato i cambiamenti della sua popolazione.
Prato ospita una delle più grosse Chinatown d’Italia. L’idea di includere dei simboli appartenenti ad altre culture nel Gonfalone è un modo per registrare i cambiamenti che avverranno. Non si sa quando verrà aggiornato, quando cambieranno il nome di una via o quando ne verrà nominata una nuova, dipende da decisioni politiche. “Flags for future neighborhoods” ad Aarhus erano una serie di bandiere dedicate ai futuri quartieri della città. Il suo porto cambiava destinazione, da area portuale diventava residenziale, la città cresceva di 5.000 abitanti l’anno. Le bandiere fermavano un’istantanea; individuavano momenti da ricordare in futuro, come nelle nostre città le vie sono chiamate con i nomi dei mestieri che le caratterizzavano nel passato.

L.M. Il numero su cui sei in copertina ragiona sulla parola rivelazione come disvelamento di qualcosa che abbiamo davanti e i tuoi progetti lavorano molto su questo tema. Come puoi definire questo termine e credi che sia importante lavorare su questa parola?
M.C. Svelare significa scegliere cosa guardare. Significa selezionare un elemento e mettere a fuoco le relazioni che questo ha con il contesto. Osservare un luogo da più punti di vista è la parte principale del progetto.

Testo di Luca Molinari


Didascalie e crediti fotografici (dall’alto in basso)

– Ritratto di Matilde Cassani – Foto © Guido Stazzoni
– Matilde Cassani, Leonardo Gatti – Foto © Norman Rinaldi
– A celebration day – Foto © Delfino Sisto Legnani
– Bird Flight. Erika Giovanna Klien in dialogue with contemporary artistic positions. Curated by: Bart van der Heide. Andreas Hapkemeyer, Brita Kohler – Exhibition Design: Matilde Cassani Studio Exhibition views: Museion Bozen/Bolzano, 09.04. – 17.09.2022 – Foto Luca Guadagnini © Museion
– Your restroom is a battleground, 2021 – Matilde Cassani, Ignacio C. Galàn, Ivàn L. Munuera, Joel Sanders – Corderie dell’Arsenale, 17. Biennale arch9tettura, Venice – Photo © Imagen Subliminal
– Flags for future neighborhoods, Aarhus Festive btosy LIST – Foto © Martin Dam Christensen
– Bird Flight. Erika Giovanna Klien in dialogue with contemporary artistic positions. Curated by: Bart van der Heide. Andreas Hapkemeyer, Brita Kohler – Exhibition Design: Matilde Cassani Studio Exhibition views: Museion Bozen/Bolzano, 09.04. – 17.09.2022 – Foto Daniel Walcher © Museion
– Spiritual devices – Foto © Ivan Sarfatti
– Tutto, Manifesta 12 Palermo, Piazza dei quattro canti – Curated by Bregtje Van der Haak, Mijam Varidinis, Andres Jaque, Ippolito Pestellini Laparelli – Foto © Studio DSL

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