Matali Crasset

Sperimentatrice eclettica e non convenzionale, il lavoro della designer francese matali crasset spazia tra interior, architettura, spazio, simboli, persone, tessuti. Testimone di un mondo senza più confini, con le sue opere invita al dialogo, all’apertura, alla dinamicità, all’evoluzione

LM: Da tempo seguo il tuo lavoro e devo dire che mi appassiona molto. I tuoi temi incrociano in maniera molto libera design, interior, architettura, spazio, simboli, persone, tessuti. Segno evidente che ti appassiona passare da un campo all’altro e lo fai con grande facilità. Comincerei da questo, dal fatto che oggi non ci sono più confini, ed è bello sperimentare proprio tra le pieghe e negli spazi lasciati liberi da un mondo che sta cambiando.
MC | Il tema è che non inizio mai un progetto pensando alla materia, sia che si tratti di architettura che di un oggetto, penso prima alla funzione che voglio attribuirgli. L’importante non è la produzione finale, ma il regalare qualcosa di profondo all’essere umano: l’ospitalità, l’idea di avere uno spazio comune; cose che mancano un po’ oggi nella società dove viviamo. È per questo che alla fine la materialità dipende dagli attori ai quali è destinato il progetto, per questo motivo è molto libera. C’è il pensiero che poi diventa materia, ma con infinite possibilità di materializzazione specifica. È come avere un corpus unico, e in ogni momento prenderne un pezzo per realizzare un progetto, con una materialità sempre diversa per altrettanti contesti diversi.

LM: Mi sembra di capire che dai una grande importanza al dialogo. All’inizio di un progetto, lavori all’idea, al concept che immagini, che poi diventa protagonista nel confronto con il tuo committente.
MC: Sì, il dialogo serve a capire che potenzialità c’è di cambiare la società di oggi attraverso il progetto. Occorre assumere un punto di vista speciale, perché devo capire velocemente di che tipo di spazio si tratta, quali sono le caratteristiche e le criticità, e dedurre quali saranno le possibilità di cambiamento. Questo è il mio lavoro. In seguito, instauro questo scambio, dialogo, con il cliente per capire se è giusta la mia interpretazione.

LM: Quindi il tuo è un progetto che può modificarsi anche dopo che è stato finito?
MC: L’idea è di non realizzare dei progetti veramente finiti. Sono “piattaforme”, cioè progetti che si sviluppano nel tempo, che hanno alla base c’è il concetto di dinamicità. Mi è sempre piaciuta molto l’idea dell’evoluzione, della capacità di cambiare delle forme. Così, cerco di farla interagire con ogni mio lavoro.

LM: Quindi delle piattaforme aperte, come metafore per accogliere la vita, le persone, la loro storia.
MC: Esattamente. Non si può lavorare pensando che non c’è evoluzione. Dappertutto c’è evoluzione e il mio compito è invitare all’evoluzione. Penso che abbiamo bisogno di cambiare velocemente logica e se non creiamo posto per questi cambiamenti, questi non avverranno, perché c’è confusione sulla direzione da intraprendere. Lo spazio può essere un vettore molto potente in questo senso.

LM: Penso anche io che stiamo vivendo un momento di grande confusione. Lo spazio sta cambiando tantissimo, e con esso anche i desideri delle persone e il modo in cui si vivono le cose. Avere delle piattaforme che invitino e accolgano, credo sia la direzione più giusta oggi. Il tuo lavoro è sempre estremamente sensuale, ha questa dimensione del gioco, del colore, che vede tutte le forme femminili, ospitali.
MC: Sì, mi piace quest’idea di essere sempre dentro il flusso della vita, non al suo esterno.

LM: rispetto a questo scenario di confusione e di potenziali, come credi possa agire il nostro lavoro di creatori? Cosa credi sia importante?
MC: Ad esempio, attualmente sto lavorando con piccole aziende. All’inizio la proposta è incentrata sugli oggetti, ma per capire l’azione, poi passo a studiare tutto il contesto. Credo che non sia un problema di oggetto, o di produzione ultima, il problema è cambiare la visione. Come si fa ad acquisire questa nuova visione? Mi sembra che il design oggi, abbia la capacità di determinare indicazioni nello spazio, per cui anche la modalità di utilizzazione poi diventa completamente fissata. All’inizio l’idea deve essere quella di lavorare sul servizio, e poi a poco a poco cercare di cambiare la visione, in modo che le persone non abbiano paura di avere gli strumenti per pensare e quando l’evoluzione diventa un fatto reale, bisogna assumere l’attitudine al cambiamento. Questo è molto difficile per chi non è del mestiere: noi guardiamo il mondo come un grande possibile progetto. Per questo motivo il designer ha già questa capacità, questa visione, e quest’attitudine.

LM: In quale dei tuoi lavori questo sistema delle piattaforme aperte ha generato delle conseguenze che hai visto funzionare? Stai lavorando molto su spazi di gioco, dispositivi comunitari, spazi da configurare. Sono tutti degli esperimenti? Come la giostra per il Pompidou “Saule et les hooppies” o “Hippomedia” per Atelier Luma.
MC: Sì. “Hippomedia” rappresenta un altro aspetto del mio lavoro. Si tratta di una piattaforma mobile per workshop come il MUMO per l’arte, destinato a piccoli villaggi che non hanno molta possibilità di avvicinarsi alla cultura. In realtà non è una mia idea, Ingrid Brochard ha ideato questa tipologia di museo itinerante, che funziona bene solo essendo di piccole dimensioni. Sono strutture mobili e trasformabili attraverso lo studio dei moduli che le compongono, è anche facile adattare poi la base al museo desiderato. La cosa intelligente è che ogni regione di Francia ha dipartimenti e organizzazioni culturali con una contenuta collezione d’arte, e attraverso questo esperimento è stato possibile portarle, con divertimento, tra la gente.

LM: Ed invece, la giostra per il Pompidou?
MC: “Saule et les hoppies” nasce come un’opera d’arte, ma anche questa può essere trasformata e spostata in diversi contesti. Il presupposto del progetto era trovare il modo di mostrare l’arte ai più giovani, quindi l’idea è stata di ricreare momenti di grazia e di gioia, in condivisione. Riprodurre momenti come quelli al termine della scuola, quando i bambini sono felici, i genitori sono orgogliosi di loro e si diffonde un’energia comune. Volevo questo tipo di emozione per questo intervento. Così come la musica, che è l’altra protagonista del progetto, è un’azione per tutti, senza alcuna differenza, tutti possono imparare una canzone e poi cantarla insieme.

LM: Come ha funzionato?
MC: Bene. Questo spazio serve a unire le energie, è pensato come una piattaforma semplice per essere spostata, trasformata e per diventare ogni volta un universo specifico, sempre in sintonia con la natura, con gli alberi.

LM: L’albero è una figura sempre presente, è una specie di tuo segno profondo?
MC: sì, il salice piangente è quello che più mi piace, assomiglia ad una piccola capanna, un filtro tra noi e il mondo, dunque basta essere lì per uscire dal quotidiano ed entrare di colpo nel magico.

LM: Ma questo deriva dal tuo vissuto di gioventù, dalla tua vita in campagna? So che sei cresciuta in un piccolo paesino.
MC: Sì, ho questa mentalità data dal non essere nata in città

LM: Sei cresciuta in un piccolo contesto e poi sei andata a studiare disegno industriale. Come è stato questo tuo percorso? Hai anche una relazione forte con l’Italia.
MC: Il periodo di scuola è stato per me un periodo meraviglioso, sentimentale e generoso, dove ho avuto la possibilità di imparare e formare la mia personalità. Per questo continuo tutt’oggi a collaborare con le accademie, per dare questa disponibilità di crescita e integrazione dei saperi a tutti. Ha una grande importanza essere in una scuola generosa, che offre molte possibilità. Dopo questa esperienza di formazione ho deciso di andare fuori dalla Francia, era necessario questo passaggio, quindi ho pensato con chi avessi desiderio di fare questo salto. Ero molto affascinata da Denis Santachiara, lui è un eclettico, un autodidatta, un artista, un designer, il suo lavoro mi ha sempre colpito. All’inizio, si occupava di questi piccoli progetti di Domodinamica, e con lui ho avuto l’opportunità di mostrare il mio progetto finale, realizzato per la scuola di specializzazione, alla Triennale di Milano. Quindi pensai di voler lavorare con lui, così sono stata in Italia per un anno. È stato un periodo molto intenso, mi ha dimostrato che non c’era differenza tra lo studio e il lavoro, e questo è il regalo più bello per uno studente. C’era il dialogo, la correzione, il workshop; c’era sintonia tra tutti ed ognuno aveva libertà di esprimersi, di raccontare le sue idee.

LM: Santachiara è anche una persona molto generosa e gioiosa.
MC: Sì. Pensai che volevo anche per me la stessa struttura di studio. Per lui non è importante la grandezza del progetto, ma l’idea che esso racchiude.

LM: Come in un atelier di piccolo artigianato. Come è organizzato, invece, il tuo studio?
MC: Noi siamo in quattro, non abbiamo un’amministrazione pesante, possiamo veramente dedicarci ai progetti. È un piccolo gruppo che lavora con molta flessibilità, passando da un progetto all’altro come una in una ginnastica di pensiero.

LM: A cosa stai lavorando in questo periodo che ti rende felice? Cosa ti piace portare nel progetto?
MC: Sto lavorando al progetto una casa riproducibile in serie. Abbiamo lanciato il concept per cercare un produttore, perché sarà costruita come un vero e proprio oggetto, come una capsula e non come una casa tradizionale; pensata per complessi contesti ambientali e sociali. Si chiama “la casa design per tutti”.

LM: L’obiettivo è comunque quello di rendere felici le persone che vivono in questi spazi?
MC: Sì, lavoriamo con partner produttivi, ma il concetto principale è soprattutto di lavorare insieme, per creare questa nuvola di innovazione e incentrare la ricerca sugli scenari di vita possibili all’interno e all’esterno di questa casa. Questo è il mio nuovo esperimento, poi in seguito si valuterà se sarà realizzata in legno o in metallo. L’importante è il suo significato, poi si trova il modo.

LM: Nei tuoi progetti c’è una grande attenzione per i materiali, le tecniche di montaggio, e soprattutto per i colori, che è un tuo linguaggio fortissimo.
MC: Sì, il colore è la vita. Credo che ora non si usi molto colore perché abbiamo un po’ paura della vita, allora il progetto può diventare l’antidoto alla paura. Sicuramente occorre sceglierlo in base al contesto di azione.

LM: Hai anche disegnato diversi tessuti. Ti diverte?
MC: Sì. Collaboro da tempo con piccole aziende di tessuti realizzati a mano, ed è un campo che mi interessa particolarmente, soprattutto perché arriverà presto un’evoluzione nella produzione tessile, che renderà tutto il meccanismo molto problematico. Ben presto arriveranno macchine capaci di sostituire l’intera artigianalità.

LM: Per finire, che cos’è per te la meraviglia, lo stupore nel progetto? Cosa li genera?
MC: Lo stupore c’è quando hai trovato la forma finale, quando non c’è più niente da modificare perché hai passato tanto tempo a studiare e riflettere su quella forma. Poi con il progetto diventa evidente e viene comunicato agli altri: lì c’è la meraviglia, il piacere. Quest’emozione, con il tempo, avvicina le persone e la scintilla, che provo, viene trasferita a tutti.

Interview . Luca Molinari

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Captions and Photo credit (from top to bottom)
Ph. Julien Jouanjus

Dar HI, 2013 – Ecolodge, Nefta, Tunisia – Ph. Jérôme Spriet
Second feral house: la noisette (the hazelnut), 2013 – Public commission – Vent des Forêts, Meuse, France – Ph. Vent des Forêts
Le fenouil, 2019 – Kiosk – Public commission CHU Angers, University Hospital, Angers, France – Ph. Philippe Piron
Library of Les Presses du Réel, 2018 – Consortium Museum, Dijon, France – Ph. Philippe Piron
Dar HI, 2013 – Ecolodge, Nefta, Tunisia – Ph. Jérôme Spriet
Ikea PS light, 2017 – Light PS collection Ikea – Ph. matali crasset
Osmoze, 2018 – portable soundtrack and light – Thomson Multimedia – Ph. designerbox
Les Capes, 2018, vase, Manufacture de Sèvres Ph. Gérard Jonca, Manufacture de Sèvres