Situarsi nella terra di mezzo, a cavallo tra storia dell’arte, fotografia, cinema e architettura, per non essere localizzati da nessuna parte: il percorso singolare di Ila Bêka & Louise Lemoine per esplorare il rapporto tra persone e spazio.
Luca Molinari | Allora cominciamo, non diamo per scontato nulla. Mi volete raccontare chi siete e perché fate quello che fate? Una cosa molto elementare, tra l’altro è molto interessante perché sul vostro sito non lo raccontate e cominciate direttamente con quello che fate. Quindi mi piacerebbe conoscere il vostro percorso creativo e intellettuale.
Louise Lemoine | Noi abbiamo un problema di definizione. Non so se chiamarlo problema o una difficoltà a localizzarci in modo semplice. A noi piace sbordare, essere ‘outsiders’ di ogni casella. Questo è proprio un aspetto del nostro modo di lavorare e una scelta anche del modo di vivere, pensare ed essere. La questione della deriva è un elemento motore fondamentale che definisce sia la nostra identità che la nostra pratica come artisti. Per questo è sempre una sfida definire dove ci localizziamo. Ovvero è un elemento fondamentale per noi, perché Ila si è laureato come architetto, ma da subito ha deviato verso l’immagine. Io mi sono laureata in storia dell’arte, però immediatamente, sono stata attratta dalla fotografia e dal cinema. Ci siamo conosciuti che io ero appena laureata e insieme abbiamo lavorato sui terreni della deriva. Il mezzo filmico è il nostro ambiente, però è vero che non apparteniamo all’economia cinematografica in senso classico. Per scelta, perché il canone della produzione cinematografica noi lo vediamo come una gabbia che limita l’invenzione di forme, formati, modi ed espressioni. Oggi facciamo il lavoro di un filmmaker senza aver mai studiato il cinema in un modo classico. Anche quello ci da una libertà rispetto al linguaggio. Non sappiamo, non abbiamo mai saputo come si deve fare; dunque, inventiamo come fare e questo ci piace moltissimo. All’inizio, durante i nostri primi passi, ci dicevamo “sì, forse siamo un po’ questo, ma anche un po’ quello”. Abbiamo avuto riscontri di galleristi o di critici che ci dicevano che dovevamo scegliere e ci chiedevano “ma siete qui o siete qua” e alla fine noi provammo spiegare che questo essere ‘in between’, in mezzo alle cose e alle varie discipline era proprio la richiesta forte di non essere localizzati da nessuna parte. Ci piace navigare tra quello che si chiama il ‘non-fiction cinema’, o il documentario, se vuoi in un senso più autoriale, ma anche il mondo dell’arte contemporanea, quelli delle scienze sociali e dell’architettura. Abbiamo una sorta di percorso molto anarchico e ci piace molto.
L.M. | Ila ti trovi nelle parole di Louise?
Ila Bêka | Io sì, però devo aggiungere una cosa. Tutte queste espressioni sono interessanti per un grande tema che ci interessa sin dall’inizio e che deriva molto dagli studi di architettura. Il primo film che abbiamo fatto e che ha fatto molto scalpore in architettura, in realtà era l’intenzione di capire cosa è il rapporto con lo spazio. Un tema che sembra molto teorico, ma che in realtà ci riguarda costantemente tutto il giorno, in ogni punto in cui ci trovi e a scala universale. È qualcosa di incredibile, quanto non se ne parli, perché è qualcosa che ci relaziona al mondo, all’architettura e alla città, a qualsiasi, ma non viene mai trattato come soggetto, neanche nelle scuole di architettura. Venendo dall’ architettura mi è sempre sembrato una cosa abbastanza assurda, in tutti gli esami che ho fatto, non ne ho mai sentito parlare, se non in qualche lettura che ho fatto io da solo. Il dibattito attorno al rapporto con lo spazio in architettura era, a mio parere molto assente. Allora quando ci stiamo incontrati la chiara domanda era “ma perché non fai film legati all’architettura?” Ma non volevamo uno strumento che serviva a fare promozione al lavoro dell’architetto o al committente, ed è una cosa terribile. Immediatamente abbiamo pensato quale poteva essere una possibilità per iniziare questa riflessione. Ci siamo detti che in realtà basterebbe fare una cosa che non si fa quasi mai, in architettura: basterebbe seguire un corpo in uno spazio. La scelta di questo corpo nello spazio era, sin dall’inizio, molto importante per noi. Non è che fosse un corpo qualsiasi. Certo che è interessante la relazione del corpo tra lo spazio ma c’è un livello anche più sociale nella scelta del corpo, nel senso che per noi sin dall’inizio era importante non solo creare questo dialogo legato allo spazio, ma anche mettere in luce delle persone che non sono mai visibili, che sono sempre scomparse dell’architettura e che sono sempre nascoste: che sono tutte le persone che si curano degli spazi, e che sono moltissime. Perchè l’architettura spesso dà spazio solo alle persone colte, a questa sorte di élite, che si trovano nella scuola di architettura, che sanno tutto e che spiegano agli altri come funziona il rapporto allo spazio. Noi volevamo, invece, trattare più il rapporto con lo spazio dal punto di vista fisico, più immediato e più intuitivo. Allora abbiamo avuto un’illuminazione, ci siamo detti che abbiamo bisogno di seguire chi mantiene quelli spazi, chi pulisce, chi veramente tutto il giorno ha un rapporto diretto, non concettuale ma un rapporto fisico con lo spazio. E da lì c’è stata la scelta e l’opportunità di poterlo fare in un’architettura che era un’opera iconica, perché era chiaramente molto più forte il rapporto, ed è nato il primo film che abbiamo fatto.
L.M. | Il vostro primo, mitico, film, ovvero “Koolhaas houselife”, che ho scoperto grazie alla copertina del primo numero di Abitare curato da Stefano Boeri, che ebbe una intuizione geniale, perché utilizzando il vostro lavoro spostò completamente il punto di vista su una icona della contemporaneità.
L.L. | Posso aggiungere una piccola cosa perché bisogna veramente contestualizzare questo primo film che volevamo pieno di ironia ma anche leggero; un film che voleva aprire un dibattito all’epoca. Perché bisogna ricordare che era il momento di massima potenza dell’architettura iconica e di una generazione di architetti internazionali.
I.B. | Era il momento delle ‘star architect’.
L.L. | Dunque, noi ci siamo detti, ma se possiamo contribuire a portare il medium del cinema a qualcosa di diverso, potrebbe aprire una possibilità verso un altro tipo di rappresentazione che a noi sembrava incredibilmente scarsa all’epoca. L’utilizzo dell’immagine in quel periodo era fondamentalmente promozionale, un oggetto di comunicazione, non tanto di più. Quindi c’era una povertà nell’approccio della rappresentazione che non dava nessuno spazio di libertà e d’interpretazione, e nessuno sguardo critico. Per questo che ci siamo detti che per il primo film volevamo un linguaggio quasi più politico con una proposta vigorosa. Il film è stato anche molto criticato per la libertà che si è preso, però c’era, credo, la necessità all’epoca di rompere qualcosa. Per questo abbiamo comunque usato la chiave dell’ironia molto legata alla tradizione di Jacques Tati, ovvero di usare il senso dello humor come chiave critica, aprendo su una realtà del ‘backstage’, ovvero su cos’è la realtà quotidiana.
L.M. | Sì, aggiungerei che più che realismo è una forma di surrealismo. C’è uno spiazzamento, di colpo, la donna delle pulizie diventa il modulor, entra nella casa e la misura con il suo corpo, come tutti noi misuriamo in maniera anonima e individuale i luoghi che abitiamo. L’architettura non è più il corpo dell’architetto che l’ha fatta ma è il corpo di chi la abita. E quindi a questo punto le figure anonime che scegliete diventano delle presenze stranianti e spiazzanti. In questo ritrovo la lezione di Jacques Tati, ma anche tanto di Perec e Bachelard, ovvero tutta la cultura francese del quotidiano che diventa iperreale e straordinario.
L.L. | É lo straordinario dell’ordinario.
L.M. | Esattamente, questo secondo me è importantissimo.
L.L. | Perec è proprio un autore che ci ha seguito dall’inizio ed è stato molto un punto di partenza.
I.B. | È vero ma poi abbiamo preso una direzione un po’ diversa. Perec, pur amandolo tantissimo, è un matematico, e un osservatore preciso, scientifico e ossessivo. A noi nella lettura di Perec mancava un po’ di poesia; per noi era molto importante riuscire a cogliere nel quotidiano la poesia e la bellezza, andando oltre la misura dello spazio. Un corpo aiuta ogni movimento per misurare uno spazio, ma poi c’è anche molto di più, nel senso del rapporto psicologico con i luoghi e il cambiamento. Ci interessa come ci si adatta a uno spazio e quanto uno spazio sia capace di cambiare il nostro comportamento. Soprattutto nella serie di film che facciamo sulla città, lo spazio urbano condiziona tantissimo il comportamento della comunità e degli individui.
L.M. | Vorrei arrivare a uno dei vostri progetti più recenti che è Homo Urbanus, una sequenza di film su diverse metropoli del mondo e i suoi abitanti ordinari, che sta crescendo nel tempo ed è stato esposto progressivamente in diversi musei nel mondo dalla Polonia passando per Basilea e adesso a Bangkok. Il vostro compito è di spingere il pubblico a guardare in maniera diversa; quindi, fare prestare attenzione attraverso una forma di fissità anomala verso quei luoghi che in realtà ci scorrono davanti agli occhi e non vediamo più. In quanto progettisti della visione combinate in maniera originale spazio, corpo e sguardo costruendo un universo di frammenti urbani ed emozionali che ci aiutano a rileggere i nostri paesaggi metropolitani. Mi volete raccontare la genesi di Homo Urbanus, come sta crescendo e come si è costruito nel tempo?
L.L. | Diciamo che lo vedo un po’ come un’evoluzione quasi organica o naturale, perché abbiamo il primo film Koolhaas Houselife, che è stato un po’ un esperimento nostro che non avevamo assolutamente pianificato ed era il primo progetto che abbiamo fatto insieme. Si trattava di un progetto estivo, di vacanze che poi abbiamo sviluppato. Dunque, questo primo film ci ha portato a sviluppare più a fondo una sorta di critica o di decostruzione dell’immagine in architettura. Per questa abbiamo fatto una prima serie di film che avevamo chiamato Living Architectures, e che lavorava su questo slittamento linguistico e concettuale. Invece di rappresentare l’oggetto architettonico, ci interessava la vita del backstage, cioè un approccio antropologico all’interno di queste architetture iconiche. Pian piano abbiamo allargato il frame e ci siamo interessati alle dinamiche più urbane. Alcuni progetti ci hanno portato a lavorare sulla questione dello spazio pubblico. Per esempio, abbiamo fatto un film a Parigi, sulla Place de la Rèpublique, che si chiama 24 Heures sur Place e questo lavoro guardava all’impatto di un progetto degli urbanisti e architetti francesi. Era comunque legato a un progetto di rinnovamento di uno spazio urbano che ci ha fatto capire quanto era stimolante uscire dallo spazio architettonico e dal rapporto con la figura dell’architetto. Abbiamo aperto la scala alla città e un mondo di possibilità. Dopo questo film ne abbiamo fatto diversi, sempre localizzati in un ambiente urbano, e poi abbiamo avuto l’occasione di una commissione artistica per una Biennale che c’era a Bordeaux intitolata Agora. È stata questa la ragione per cui abbiamo proposto un progetto con i 5 primi film di Homo Urbanus. Da allora, e in un modo esponenziale, il progetto si è espanso sempre di più e ormai abbiamo quasi tredici film prodotti. Perché sempre dimenticando l’architettura, partiamo dall’idea che la città è una stratificazione costruttiva che si è fatta nei secoli. Non andiamo più a relazionarci con la figura o la firma di un architetto, ma ci interessa tantissimo come noi tutti homo urbanus ci dobbiamo adattare costantemente, perché abbiamo ereditato un ambiente urbano e dobbiamo trovare soluzioni di adattamento tutto il tempo, cercando di trovare soluzioni per farlo funzionare anche se rimane un ambiente estremamente complesso. Ci interessa tantissimo vedere quanto è in gioco la differenza culturale tra l’Europa, l’Asia e l’America attraverso lo sguardo sulle metropoli e i loro abitanti.
L.M. | Che cos’è che vi ha spiazzato di più? Quali le situazioni specifiche in cui vi siete trovati totalmente spiazzati rispetto a quello che pensavate di trovare?
I.B. | Tutti i nostri film sono creati per frammenti, per cercare sin dall’inizio di scappare da questa idea globale del film che ti spiega tutto. Quindi sono già frammentati dall’inizio perché l’osservazione nella città vive di una frammentazione totale, come nella vita quotidiana. Se esci per strada, cominci a guardare di tutto. Quello che guardi sono per forza frammenti, come poi costruisce memoria. La cosa che ci ha stupito molto, non tanto quando abbiamo cominciato a filmarli perché per noi è una pratica già che da tempo utilizziamo all’osservazione. Era molto bello quello che dicevi prima, che siamo noi che spesso non prendiamo il tempo di fermarci e osservare, e solo in seguito lo riformuliamo in una maniera più precisa. Chi guarda i nostri film non deve passare tutto quel tempo a vederli completamente, ma può comprendere anche in base alle relazioni delle immagini che noi mettiamo, e diventa un’osservazione molto personale. Però più che nel momento in cui filmiamo è interessante quello che abbiamo fatto nella mostra, per esempio, che è itinerante e adesso sta continuando a viaggiare. Questa condizione è una maniera incredibile per studiare e un incredibile strumento critico per poter capire in che situazione si trova la città oggi. Il soggetto è l’uomo urbano, come si adatta o come soffre nella città. È questa forse la cosa più interessante che è venuta fuori, cioè che ci sono tantissimi argomenti che creano l’identità dell’uomo urbano. È una vita dura la sua, e la vita nella città è un adattamento molto difficile, soprattutto quando sei in uno dei livelli economici più bassi della popolazione. Una cosa anche immediata, che si capisce, è che lo spazio è un grande lusso. Sono teorie che quando ne parli in generale, ti dici che “siamo tutti d’accordo”, ma quando poi vedi le scene di chi deve condividere degli spazi minuscoli, tutti insieme, anche con una qualità dell’ambiente esterno terribili, rende la realtà molto più potente.
L.M. | In questo viene fuori la dimensione anche politica dell’architettura. Si tratta di un termine non utilizzato, ma che è abbastanza evidente. Portare chi non si vede, chi subisce lo spazio e chi ha un frammento piccolissimo di spazio abitabile al centro della narrazione è dare una lettura politica della città in maniera molto chiara. E qui arriviamo a rapporto tra spazio e corpo, che è un po’ al centro di questo vostro libro, uscito da pochi mesi, intitolato The Emotional Power of Space. Dodici dialoghi, più che conversazioni, con dodici autori e amici che in qualche modo rappresentano il mondo del progetto, ma che poi dopo in maniera interessante non parlano di architettura, ma del loro rapporto con lo spazio. Ritornano sempre al centro, lo spazio e il corpo, come due elementi che si combinano. Non è solamente lo spazio ma è il corpo che misura i luoghi, e lo spazio che si conforma al corpo. Mi volete un po’ raccontare il senso e le ragioni di questo vostro ultimo libro?
L.L. | Noi siamo ossessionati dall’evitare di fare compromessi in qualsiasi passo di produzione di un film, di un libro, o di ogni nostro lavoro. Vogliamo evitare ogni forma di condizionamento esterno per proteggere l’integrità del nostro lavoro. Noi abbiamo capito come si fanno le cose, le facciamo in modo molto artigianale, però le portiamo avanti come piace a noi. Questo però vuole dire che poi tocca anche a di portare i libri in posta da spedire!
L.M. | Mi raccontate perché avete voluto fare questo libro?
L.L. | Lo vediamo come una sorta di continuazione naturale dei film che abbiamo fatto fino ad ora, cambiando solo il mezzo. Nella breve introduzione del libro abbiamo provato a spiegare che con tutti i film che abbiamo fatto abbiamo sempre provato a spostare la tensione, non parliamo di architettura in un modo descrittivo, ma cerchiamo di captare e tradurre attraverso l’immagine, la qualità o la tipologia di relazione che lo spazio va a creare con le persone che lo abitano. In realtà è sempre questo ‘in between’ che ci interessa, non la persona né l’architettura per sé, ma in realtà quella alchimia che si crea, quello che poi viene definito nel libro nella discussione con Pallaasma, come ‘the tuning of space’, che è un concetto molto interessante per noi e abbastanza centrale nell’approccio del libro. Non vogliamo essere fraintesi, ma ‘The emotional power of space’ non è una condizione necessariamente positiva, perché ricopre tutte le dimensioni dell’impatto psicologico che lo spazio è capace di provocare. Siamo andati a discutere con gli architetti selezionati di una cosa che di solito non facciamo mai. Normalmente andiamo a discutere con loro una volta che abbiamo finito i film, per vedere come reagiscono. In questa occasione abbiamo messo assieme varie personalità che conosciamo da anni o che siamo andati a cercare apposta, perché tutti hanno cose in comune, anche se molto diversamente: una sensorialità, un lavoro sull’approccio fisico e sulla fisicità dell’architettura. Questo libro non è tanto un ritratto biografico di questi architetti molto noti ma è la nostra volontà di catturare, attraverso una strategia un po’ particolare, la loro sensibilità. Quello che ci interessa, è capire come alla fine un’architettura nasce da una sensibilità, anche innata o cresciuta negli anni, verso il rapporto che abbiamo con lo spazio. Siamo andati a cercare architetti con cui abbiamo creato un dialogo, attraverso le memorie lontane e la loro memoria affettiva. Abbiamo raccontato un po’ come si costruisce il loro rapporto intimo con lo spazio a livello individuale, come sentono le cose e le mettono in atto in rapporto all’architettura.
I.B. | Dall’inizio ci eravamo detti che se avessimo dovuto parlare di spazio sarebbe stato necessario evitare di parlare con gli architetti; volevamo parlare di spazio senza avere la voce dell’architetto e dell’esperto. Gli architetti, si pongono sempre come i grandi conoscitori dello spazio. In tutti i nostri film ci chiedevamo come gli esperti di spazio creano questa esperienza, da dove viene? Allo stesso tempo abbiamo scelto architetti capaci di creare grandi spazi, dove si provano emozioni importanti. Da dove viene questa sensibilità in un architetto per poter creare uno spazio con queste qualità? Abbiamo pensato che ci sono dei momenti chiave nella formazione di un architetto che generano questa capacità. Ci siamo detti che sarebbe interessante andare a capire quali sono i meccanismi che creano questa sensibilità allo spazio, anzi, all’esperienza dello spazio. Quindi, avendo deciso di entrare in un dialogo con loro, lo volevamo fare senza nessun tipo di immagine, proprio per dare modo all’architetto di liberare il proprio ego. Abbiamo fatto un libro solo di testo, però ci interessava andare a capire come alcuni architetti che consideriamo molto sensibili, si sono creati questa visione e atteggiamento. Parlando con loro, ci siamo resi conto che molto spesso, e un po’ come a tutti noi, tutto avviene nell’infanzia e nell’età più giovane. Ci siamo detti che forse la chiave per cominciare a parlare della sensibilità è un po’ quello di parlare dei ricordi dello spazio. Sono venute fuori delle cose molto interessanti e in alcuni casi abbastanza sorprendenti rispetto ai legami tra ricordi spaziali e le prime emozioni spaziali. Cosa che tra l’altro è un meccanismo molto interessante da fare con chiunque, ovvero quello di cercare di ricordarsi quali sono state le prime emozioni spaziali. Adesso siamo talmente ossessionati da questo tema e ogni volta che ci troviamo a dialogare, parliamo di questa cosa, e ogni volta anche senza dire che si parli di spazio, i ricordi di quando si è giovani o bambini riguardano sempre un luogo specifico, magari attraverso un odore, una luce e altri elementi. Da lì abbiamo capito che in effetti c’era la possibilità di poter aprire un’altra dimensione su questa discussione sullo spazio. Come diceva Louise la cosa interessante era di non fermarsi sull’emozione bella, ma di capire come le esperienze spaziali hanno creato questa sensibilità. Ma anche come questa sensibilità, se sbagliata, può creare molte sensazioni negative. Recentemente abbiamo fatto un film sull’ospedale di Herzog e de Meuron a Basilea, adesso in mostra a Londra, che è molto interessante perché ci ha aiutato ad aprire su una accezione dell’emozione legata alla sofferenza, dove la grande capacità dell’architettura di riuscire ad accompagnare o addirittura entrare anche nell’aspetto più terapeutico, può aiutare nella terapia il paziente.
L.M. |Passiamo quindi dall’idea di architettura come composizione, all’idea di architettura come esperienza.
L.L. | Esatto, totalmente.
I.B. | Infatti uno dei miei libri che mi ha colpito di più è il libro di Rasmussen, Experiencing Architecture. Quando l’ho letto per la prima volta, nonostante non sia stato messo in nessun tipo di bibliografia, mi parlava dei bambini che giocano sulle scale di una chiesa di Roma e questa immagine mi spiegava che questa è la maniera di avere un’esperienza reale con l’architettura. Queste immagini sono rimaste in me in maniera talmente forte che anche in Homo Urbanus ci sono tantissimi bambini che giocano, perché il rapporto con lo spazio cambia tantissimo dall’infanzia a quando diventi adulto. Guardare i bambini come si relazionano allo spazio è straordinario perché hanno un grado di libertà totale, incondizionato.
Testo di Luca Molinari
Didascalie e crediti fotografici (dall’alto in basso)
– Copertina – Foto © Maddalena Clericuzio
– Ritratto di Ika Bêka e Louis Lemon – Foto © Maddalena Clericuzio
– Ancora dal film “Tokyo Ride”, Bêka & Lemoine, 2020
– Ancora dal film “Koolhaas HouseLife”, Bêka & Lemoine, 2008
– Poster del film “Homo Urbanus”, Bêka & Lemoine, 2017-2023
– Fotogramma del film “Rehab from rehab”, Bêka & Lemoine, 2023
– Ancora dal film “Le grandi orecchie ascoltano con i piedi”, Bêka & Lemoine, 2022
– Copertina del libro “Il potere emotivo dello spazio”, Bêka & Lemoine, 2023
– Ancora dal film “Homo Urbanus Venetianus”, Bêka & Lemoine, 2019
– Ancora dal film “Homo Urbanus Tokyoitus”, Bêka & Lemoine, 2019
– Ancora dal film “Barbacania”, Bêka & Lemoine, 2014
– Ancora dal film “24 Heures sur place”, Bêka & Lemoine, 2014
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