È passato tanto tempo ormai. Trascorro da sempre le mie vacanze a Capri e, da piccolo, in barca, mio padre, lasciandomi osservare una casa rossa dalla sagoma singolare tra la Grotta Bianca e i Faraglioni, mi disse: vedi quella è la residenza di un famoso scrittore, ti sembra una casa? Risposi di no immediatamente, senza pensare. Quando a diciotto anni decisi di studiare architettura ho sempre pensato, nuotando in mare nei pressi di quel singolare oggetto, che non fosse una casa. Mi sembrava altro ma non riuscivo a capire cosa. Mai era stata descritta nel suo essere dimora. Evidentemente avevo indovinato, non si trattava di una casa. Altre, molto celebrate nelle storie dell’architettura, lo erano, invece. Esse indicavano nuovi modi di abitare in un continuo rapporto tra forma, interno, esterno e volume fatto di raffinati slittamenti, correzioni e ampliamenti di senso. Questa architettura, alla fine, non aveva nessun senso. Era niente di più e niente di meno che un oggetto di desiderio di un uomo singolare in luogo unico, una magnifica trappola, un pezzo intoccabile.Da sempre, secondo me, dimostrava il bisogno di avere un ruolo attivo nell’architettura di oggi. Dalla sua costruzione era stata studiata e solo contemplata. Affinché, invece, ritornasse ad avere una forza propulsiva in un momento in cui la forma è di nuovo determinante in architettura non più come spettacolo ma come sostanza, bisognava prendere di petto la sua forza segreta e stressarla, sottoporla a una manipolazione perché tornasse a corrompersi col presente, abbandonasse il suo scoglio e divenisse sostanza attiva per generare altre architetture. Casa Malaparte aveva un compito da svolgere che mai le era stato affidato: doveva dimostrare come, al tempo stesso, ogni alterazione non serviva a cancellarne la sagoma inconfondibile, acquattata sulla rupe con i muscoli tesi di un mostro preistorico, senza che la sua sostanza ultima ne venisse in nessun modo scalfita. E, in questo senso, la figura di Curzio Malaparte e la sua traccia nell’edificio mi ha rassicurato su quanto fosse appropriato manipolare l’oggetto immensamente amato da uno dei più noti e camaleontici intellettuali del novecento. La sua vita è complessa, avventurosa, densa come la trama di un geroglifico misterioso. Forse non è mai stato coerente ma è proprio questo il tratto fascinoso della sua individualità. Malaparte è un genio della polifonia e la famosissima sagoma rossa su cui hanno scritto pagine indimenticabili grandissimi autori come John Hejduk, Manfredo Tafuri, Francesco Venezia, Franco Purini, giusto per citarne alcuni, ha una sagoma laconica e inconfondibile: remo egizio per Hejduk, ara sacrificale per Tafuri, tomba enigmatica per Venezia, battello ubriaco per Purini, ha sempre avuto il fascino di un mistero. Allo stesso modo, storici e giornalisti come Marida Talamona, Vittorio Savi, Gianni Pettena, Rocco Ferrari, Sergio Attanasio, Stefano Bucci, Pietro Treccagnoli, l’hanno ricostruita mentalmente come il frutto di un complicato intrigo ordito dallo scrittore tra il 1937 e il 1945. Egli portò a Capri architetti come Adalberto Libera, Uberto Bonetti, Luigi Moretti, artisti come Orfeo Tamburi, Raffaele Castello, Alberto Savinio e altri affidandosi al costruttore isolano Adolfo Amitrano. La storia, fin qui, è piuttosto nota. Ho sempre creduto che in architettura scrivere su testi sacri serva a renderli intensi come Vangeli Apocrifi. Allora, su questa non casa, lo scorso anno ho tenuto un Laboratorio alla Seconda Università di Napoli dove insegno Composizione Architettonica. Il tema era quello dell’alterazione, il risultato credo sia nella continua trasformazione di Casa Malaparte in un sogno lisergico capace di bruciarsi in un cielo stellato senza perdere la sua magia. Una allucinazione dalla quale torna nel mondo disponibile, fruttuosa e, a ben vedere, solo leggermente tossica.
Story and Photo . Cherubino Gambardella