All’interno della cornice del progetto “Biennale Architettura Sneak Peek” organizzato dalla Biennale di Venezia, Luca Molinari intervista il curatore della prossima edizione Hashim Sarkis, cercando di scoprire con lui “How will we live together?”, svelando alcune coordinate lungo il percorso di ricerca che porterà alla Mostra del 2021.
Luca Molinari|Viviamo in un momento molto particolare, solo qualche mese fa avete lanciato la domanda How will we live together? (titolo della prossima Biennale Architettura 2021, ndr.) e poi nessuno ha più avuto la possibilità di vivere insieme, visto che siamo stati rinchiusi per sei mesi, in una condizione del tutto eccezionale, unica per tutti. Il titolo si adatta perfettamente alla situazione, come si può mettere in relazione l’idea della Mostra con la situazione che stiamo vivendo ora, e con il fatto che abbiamo paura di vivere insieme?
Hashim Sarkis|Forse ci aiuta il fatto che sia una questione aperta, più che una affermazione. Questo titolo potrebbe anche essere una coincidenza ed essere visto come un paradosso, non ne sono sicuro…
Contemporaneamente, quando abbiamo cominciato a capire che avremmo dovuto adattare la mostra alla situazione attuale, abbiamo esaminato anche le ragioni per cui avevamo proposto il tema e ho riflettuto sul fatto che mi ero posto questa domanda perché stiamo comunque affrontando il cambiamento climatico, che ci richiede di pensare radicalmente al modo in cui viviamo insieme. Ci viene richiesto anche di ripensare alle questioni che riguardano i confini, i rifugiati, i rapporti politici e geografici e di conseguenza le questioni ecologiche.
L.M.|Bisognerebbe quindi ragionare sulla nostra polarizzazione politica che sta aumentando, dividendoci sempre di più, e sul rapporto con noi stessi e con gli altri esseri viventi. Per molti versi, se si pensa a tutte le diverse sfaccettature delle motivazioni per cui ci poniamo la domanda, perché o come vivremo insieme, queste sono le ragioni stesse che ci hanno portato alla pandemia. Ciò rende la domanda forse molto diretta, ma a livello più profondo, ancora molto rilevante.
H.S.|È per questo che crediamo fermamente che il titolo e le sue ragioni mantengono la loro validità nonostante la pandemia, e forse acquisiscono un significato diverso a causa della pandemia.
I visitatori guarderanno diversamente ai progetti in mostra. Penso che alcuni dei partecipanti stiano facendo delle modifiche mentre altri stanno mantenendo il corso prestabilito. In generale i partecipanti sentono ancora la validità dei loro progetti e pensano anzi che oggi lo siano ancora di più; ritengo che abbiano anche accettato la condizione in cui viviamo perché valorizza i loro progetti. Coloro che si sono preoccupati di dover ridimensionare il proprio progetto si sono sincerati che questo fosse solo adattato e non consumato dalla condizione attuale.
L.M.|Penso che il titolo sia così potente in questo momento perché ricordo che quando l’hai lanciato era un modo di portare l’architettura all’interno di un’agenda politica più ampia, oltre al fatto che l’architettura non è separata dal mondo ma è dentro il mondo. Ha a che fare anche con l’idea di un patto sociale molto importante, che porta questo patto non solo all’interno della società, ma lo estende a tutti gli esseri viventi e, di conseguenza, all’ambiente in cui viviamo: una sorta di responsabilità viene assegnata…
H.S.|… all’architettura e allo spazio. Questo è giusto in relazione alla condizione attuale perché quello che proponevo attraverso il titolo e il tema era un nuovo contratto spaziale, perché sento che non siamo in grado di trovare un nuovo contratto sociale con tutti i problemi che stiamo affrontando, non siamo ancora in grado di riunire la società. Allora perché non affidarsi all’architettura e ai suoi modi di definire lo spazio, perché non affidarsi a speciali possibilità di interazione per provare il contratto sociale a diverse scale? Quando è scoppiata la pandemia abbiamo fatto ricorso prima di tutto a contratti spaziali per misurare le distanze, per pensare ai gradi di isolamento, ai gradi di contatto, tutti comportamenti che in questo momento definiscono il nostro impegno sociale. Quindi in un certo senso esiste un’altra dimensione della pandemia legata alla Mostra ovvero che lo spazio informa il sociale.
L.M.|Ciò è ancora più cruciale per quello che stiamo vivendo oggi, visto che la pandemia ha aumentato le differenze sociali. Questa idea della distanza non è solo fisica, ma è soprattutto sociale ed economica. Quindi l’idea di un contratto spaziale è in questo momento ancora più rilevante e urgente.
H.S.|Si sente parlare di distanza fisica, ma anche di connessione sociale attraverso mezzi diversi da quella fisica. Penso che lo strumento che abbiamo testato durante la pandemia e continuiamo a utilizzare sia quello, per esempio, di misurare la distanza tra le sedie in modo da poter avere una conversazione mantenendo le nostre consuetudini. L’architettura diventa uno strumento che ci aiuta a definire le nostre interazioni sociali e assume non tanto un ruolo di guida quanto un ruolo di spicco perché fornisce gli strumenti per concepire un immaginario per la società e per pensare alle sue possibili interazioni.
L.M. | E pensi che questo sia uno dei modi possibili per riportare l’architettura alla vita reale e alla società? Perché negli ultimi decenni abbiamo assistito a uno scollamento tra l’architettura “alta” e la vita quotidiana. Quindi questo potrebbe essere un modo per portare l’architettura a una responsabilità diretta all’interno di una realtà sociale che ci chiede soluzioni e visioni diverse.
H.S. |Sì. Voglio anche aggiungere che in fin dei conti capire come riorganizzare lo spazio per vivere insieme in sicurezza, prevede che ci sia sempre un architetto al tavolo di discussione. Ecco, credo che questo sia molto importante e rassicurante. Infatti non è che l’agenda sociale trova delle soluzioni e poi arriva l’architetto a realizzarle; al contrario l’architetto deve fa parte del processo di creazione dello spazio sociale…
L.M. |… considerando anche il fatto che durante il secolo scorso abbiamo consumato così tanto spazio e risorse che oggi il contatto sociale assume il significato di trasformare senza consumare. Si tratta quindi di un rapporto totalmente diverso rispetto alla visione modernista di costruire il mondo.
H.S. |C’è molto in questa Biennale che riguarda come ripensare le risorse che abbiamo: la grande sezione dei Giardini è dedicata proprio ai beni comuni globali, a come preservarli, proteggerli e valorizzarli. Ma molti dei progetti si occupano della densità e concentrazione, cercando un migliore uso dello spazio, un riutilizzo flessibile, cercano nuovi rimedi e materiali che possano essere più rispettosi delle nostre limitate risorse. L’agenda ambientale pervade tutta la Mostra.
L.M. | Possiamo dire che oggi la speranza è una delle parole chiave dell’agenda?
H.S. |Credo di si. Se si guarda alla mostra dell’Archivio Storico della Biennale al Padiglione Centrale dei Giardini (Le muse inquiete, 29 agosto – 4 novembre 2020), si vede che l’architettura, rispetto alle altre arti, ha un tono molto diverso nel modo in cui presenta il suo progetto al mondo. Le altre arti possono essere critiche su questo tema, possono essere in opposizione. L’architettura in generale è stata ottimista, proponendo opportunità, visioni, mondi nuovi, a volte critici, ma non in maniera così estrema. Credo che possiamo andare più lontano nella nostra osservazione critica se siamo consapevoli di ciò che non funziona nel mondo, ma non possiamo farlo senza presentare alternative. Questa è in un certo senso la nostra vocazione, questa è la nostra disposizione come architetti, in un certo senso siamo condannati all’ottimismo.
E questa è la mostra, si spera.
Didascalie e crediti fotografici (dall’alto al basso)
Hashim Sarkis, photo by Jacopo Salvi, Courtesy La Biennale di Venezia (cover)
As One Planet_Cave Bureau
Among Diverse Beings_Ossidiana
As New Households_Osborne Macharia
SOM_As Emerging Communities
Olalekan Jeyifous_Across Borders
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