Andrea Trimarchi & Simone Farresin, Formafantasma

Lo studio Formafantasma, italiani di nascita e olandesi d’adozione, è sicuramente una delle realtà del design internazionale contemporaneo più interessanti e perturbanti per coerenza interna della propria ricerca e qualità costante dei risultati esposti. Ci piace del loro lavoro il fatto che rinegozino, ogni volta, confini e modalità di un mestiere che sembrava definito dalle regole di un mercato globale strutturato e potente. La capacità di creare “opere aperte”, di confine, capaci di rallentare lo sguardo ed eccitare i pensieri credo sia una delle condizioni da chiedere al design e all’architettura oggi.

Abbiamo incontrato Andrea Trimarchi, che insieme a Simone Farresin ha fondato lo studio, proponendo, come in un gioco, di definire alcune, semplici, parole chiave.

LM | Diversi termini incrociano idealmente il vostro modo di pensare e dare forma ai vostri lavori. Ma uno dei punti di partenza mi sembra “share” il titolo del nostro nuovo numero di Platform e per cui ho subito pensato a voi.
AT | Pensando al nostro lavoro l’idea di condivisione è presente a vari livelli. La più letterale è ovviamente la collaborazione tra noi due. Il nostro modo di lavorare è veramente l’incontro di due persone che a livello intellettuale ne generano una terza. Qui il compromesso non viene vissuto in quanto tale ma come appunto condivisione. Se pensiamo invece ad alcuni dei nostri lavori come il recente ‘Ore streams’ ma anche ‘De Natura fossilium’ o ‘Botanicà, il processo di ricerca si è sviluppato in collaborazione con diversi professionisti.
Nel caso per esempio di Ore streams (sviluppato per la National Gallery di Victoria a Melbourne e incentrato sulle problematiche legate al riciclo dei prodotti dell’industria elettronica) abbiamo condotto numerose interviste sul campo cercando di comprendere la connessioni o la mancanza di dialogo tra le diverse parti. Abbiamo dialogato con aziende che si occupano di riciclare prodotti elettronici in Europa, NGO’s che cercando di stabilire workshops responsabili nei paesi in via di sviluppo, Università che fanno ricerca nel settore, produttori elettronici e persino chi si occupa di legislazione. Per noi ricercare e condividere la ricerca è fondamentale. è un modo per dimostrare la capacità analitica e di dare risposte del design.

LM | Lavorando in costante dialogo e condivisione diventano importanti i limiti e le regole.
AT | Io ti dico regole. Simone (Farresin, suo socio) ti direbbe che sono una persona che mette limiti a regole, sono più razionale, mentre lui è più intuitivo. Limiti e regole sono importanti in un lavoro, a noi non piace non avere un brief, anzi più limiti abbiamo e più ci divertiamo. Di regole ne abbiamo milioni, lavoriamo come coppia, abbiamo tanti layer e, quindi, dobbiamo crearci molte regole abbastanza rigide, il che per noi non è problematico, perché più limiti e regole abbiamo più riusciamo ad esprimerci. Essere in due funziona, ci permette di avere un dialogo costante, di avere un alter ego, e, come Dr. Jeckyll e Mr. Hide, abbiamo ruoli che si alternano, il che rende molto più consistente il lavoro.

LM | Di conseguenza mi riconduco alla terza parola: coppia. Tu e Simone siete una coppia nel lavoro e nella vita. La cosa che mi colpisce è che quando presentate i progetti è evidente una certa dualità, non c’è mai un unico pezzo, è come se costruissero dei dialoghi necessari tra le cose che fate. Esiste una modalità dialogica che è propria del vostro pensiero di coppia e del modo di affrontare le cose?
AT | Siamo due persone, ma con un unico cervello e in due siamo un designer. Non credo che riusciremmo a lavorare se non fossimo insieme. Tutti i nostri lavori sono sulla coralità: non ci piace disegnare un pezzo unico ma creare delle collezioni. Sono sempre necessari vari pezzi per raccontare una storia. Ciò dipende molto dal fatto che siamo in due, abbiamo due unicità e in due raccontiamo una storia.

LM | Io credo che siamo in un tempo in cui è difficile operare concentrando tutto in un’unica cosa, invece credo sia molto importante oggi creare narrazioni.
AT | Se facessimo come hai descritto, il pezzo diventerebbe univoco. Una collezione, invece, ti permette di raccontare vari aspetti ed il risultato è molto più aperto. Ad esempio, la collezione con le teste di moro – lavoro siculo – è costruita per lasciare un’apertura, la possibilità di cambiare la narrazione, per cui avevamo una ceramica nuda e il significato di legare gli oggetti con stringhe significava dare l’idea di qualcosa che potesse evolversi nel tempo.

LM | Voi avete la capacità di controllare ogni elemento che producete, a partire da come lo comunicate e lo introducete, in una maniera positivamente ossessiva di chi controlla come un orologiaio il meccanismo, di chi non sa distinguere tra pensiero produttivo, ideativo e comunicativo. È un’unica grande strategia che diventa un segno tagliente molto forte e credo che sia tipico della vostra generazione.
AT | È verissimo. Per noi, infatti, il testo del progetto è importante quanto l’oggetto in sé e curiamo molto la parte di presentazione. La narrazione è importante per il modo in cui lavoriamo. Prima di cominciare qualsiasi collezione, scriviamo un testo, una sorta di dichiarazione d’intenti. Ovviamente abbiamo un processo di ricerca molto lungo e complesso, ma diamo altrettanta importanza alla componente estetica. Guardando un nostro oggetto, è possibile fermarsi agli aspetti formali, ma anche addentrarsi ai vari livelli di significato che lo compongono. Qualunque oggetto che possediamo, dal cellulare alla lavatrice, è ricco di narrazioni. Nonostante questo gli oggetti comuni tendono a essere opachi, non mantengono traccia del loro processo produttivo, al contrario nei nostri lavori cerchiamo di far emergere queste narrazioni.

LM | Parliamo, appunto, della bellezza dei vostri lavori a cui aggiungo l’aggettivo “densa”, perché i vostri interventi – grazie alle diverse soglie di cui parla – invitano a curiosare, a vedere meglio da vicino l’oggetto, a capire di cosa è fatto, come è utilizzato il materiale. L’oggetto è un invito seduttivo a scoprire un mistero.
AT | È vero. Abbiamo più difficoltà a manifestare quest’aspetto in Olanda, dove – con il calvinismo – la bellezza non è contemplata. A Eindhoven, dove tutto è fuorché bello, ci ha aiutato a riscoprire il contenuto del bello.

LM | In maniera totalmente meccanica da bellezza ti parlo di forma, che, oltre a essere componente del nome del vostro studio, ha un valore particolare: in questi ultimi anni si usa raramente la parola forma – così come anche bellezza – almeno in ambito architettonico e credo anche nel design. È come se l’approccio formale alle cose fosse peccaminoso o sbagliato.
AT | Il nostro nome Formafantasma significa, in realtà, che la forma è il risultato del processo. Spesso, la forma risulta essere diversa rispetto a come è stata inizialmente pensata. Quando abbiamo lavorato con la lava – progetto De natura fossilium – l’immagine iniziale era formalmente molto più organica, la lava è altamente imprevedibile e molto difficile da maneggiare, quindi l’unico modo per trattarla era lavorarla per colaggio in stampi. Questo percorso è tipico del nostro modo di lavorare: gli oggetti sono formalizzati, ma questo non è una decisione iniziale, piuttosto è la conseguenza di un processo.

LM | Nel modo in cui raccontate le vostre opere il prodotto finale quasi non si vede, ma date molta importanza e molto spazio al processo. Costringete in una forma qualcosa che è incontrollabile, lavorate o meglio cercate di lavorare con materie naturali, evidenziando un rapporto tra natura e artificio, quindi il processo dimostra l’importanza che date al tempo di lavoro, al corso di produzione. Ragioniamo quindi sul termine tempo.
AT | A dicembre alla National Gallery di Melbourne verrà presentato un progetto che abbiamo iniziato due anni e mezzo fa sull’estrazione e sul recupero di metalli. Il lavoro di ricerca è stato molto lungo, abbiamo incontrato più di 100 persone, fatto più di 150 ore d’interviste, verrà realizzato un documentario, ma comunque siamo giunti alla realizzazione di oggetti perché richiesti dal museo. In questo caso avremmo potuto terminare il lavoro soltanto con la parte di ricerca e con la realizzazione di un manuale. Questo è uno dei casi in cui il processo è stato davvero molto più importante del risultato finale.

LM | Un’altra parola che ho pensato guardando il vostro lavoro è pensiero critico. Oggi, senza questo non c’è pensiero progettuale. Si pensa che siccome siamo stati formati come perfetti consumatori non possiamo avere pensiero critico, ma una forma di rinegoziazione degli strumenti che ci sono al mondo e che utilizziamo per lavorare è di rafforzare un approccio diretto, tagliente, consapevole.
AT | In questi termini, vorremmo essere più radicali. A noi piace molto il lavoro commerciale che facciamo, però dovrebbe essere affrontato in termini diversi, infatti stiamo cercando di capire come scindere le due cose anche per presentarle. Tuttavia, credo che il pensiero critico vada coltivato nella didattica. Io e Simone insegniamo alla Design Academy di Eindhoven ormai da anni e siamo anche a capo del corso MANMADE al Made program a Siracusa e vediamo che manca molto pensiero critico nelle nuove generazioni. La maggior parte dei progetti che vediamo sono frutto dell’inconsapevolezza di ciò che sta succedendo. Non esistono corsi di design nel mondo che lavorano sul concetto di ecologia in modo radicale. Se non fosse per alcune biennali come quella di Lubiana, di Chicago, o Istanbul che riescono a dar voce a un pensiero critico, il design contemporaneo resterebbe una disciplina costantemente a supporto dello status quo.
Nel caso per esempio del sopra citato Ore Streams, abbiamo sviluppato il lavoro in due parti. Una molto più pragmatica e l’altra molto più concettuale. Nella prima parte abbiamo cercato di stabilire delle regole chiave per il disegno di prodotti elettronici che considerino sia le problematiche del riciclo nei paesi del primo mondo che in quelli in via di sviluppo (dopotutto se accettiamo una economia globale dobbiamo anche abbracciarne le responsabilità).
Il risultato è una video installazione fatti da interviste a specialisti nel settore e da una animazione 3d che riassume la nostra analisi. Nella seconda parte invece siamo tornati a disegnare oggetti. In questa parte non cerchiamo soluzioni ma una riflessione più concettuale. È il nostro modo di mettere la mondo oggetti nuovi generati dalle riflessioni interne allo studio. Più che trovare soluzioni qui cerchiamo di problematizzare il rapporto che il design ha con la produzione. Abbiamo disegnato una serie di oggetti che fanno riferimento all’ufficio ma resi ibridi da alcuni resti del riciclo di prodotti elettronici. Alcuni dettagli degli oggetti sono placcato in oro (recuperato da i circuiti stampati). Molti pezzi sono stampati digitalmente con immagini di Marte rilasciate dalla Nasa.
Abbiamo deciso di rifarci all’ufficio perché crediamo sia il luogo dove i parametri del modernismo basati su efficienza e quantificazione siano più evidenti. È una prospettiva semplificata sulla complessità. La stessa attitudine basata sulla quantificazione e apparente efficienza è quella applicata all’insensato utilizzo di risorse naturali. Le immagini di Marte per noi sono un modo per offrire una prospettiva aperta, quasi cosmologica sull’operato dell’uomo sul pianeta. Riferiscono inoltre all’origine aliena di molti materiali sul pianeta. L’oro è presente sulla terra per via di una pioggia di meteoriti.

LM | È vero, l’idea di avere le cose soltanto perché le possediamo è perverso. In ogni vostro lavoro c’è un duello amoroso con le storie e le tradizioni che è forte di molti designer che studiano le tecniche, le storie dei materiali e, allora, usate la storia con una leggerezza intelligente.
AT | Probabilmente in un’altra vita sarei stato uno storico o un antropologo. Queste materie ci affascinano, principalmente a un siciliano come me, che è sempre vissuto in un contesto molto tradizionale dove l’unica industria è quella pesante. La nostra attitudine è looking back to look forward, non possiamo non guardare avanti se non abbiamo la consapevolezza di quello che c’è stato prima. Quando siamo venuti in Olanda ci ha sorpreso la scarsa consapevolezza storica. Per noi è invece fondamentale. È un modo per comprendere lo stato attuale delle cose e come mutarle.

Interview . Luca Molinari