Paul Rudolph’s Penthouse

Il 1977 rappresenta il punto più basso della crisi urbana di New York. Protetti dall’oscurità inquietante del blackout che colpisce la città nelle notti del 13 e del 14 luglio, centinaia di residenti stremati dalla povertà e dall’insicurezza si uniscono alle gang criminali in un devastante saccheggio generalizzato. Più di mille incendi distruggono interi quartieri nel Bronx, a Brooklyn e nel Queens. Sono passati solo due anni dalla celeberrima prima pagina del Daily News su cui campeggiava l’imperativo “Drop dead!”, le parole durissime con cui, secondo la stampa, il presidente Ford rifiutò di salvare la più grande metropoli statunitense dalla bancarotta imminente.

Ancora nel decennio precedente, i conti della città erano abbastanza floridi da permettere d’immaginare un piano ambizioso come quello per la Lower Manhattan Expressway, la contestatissima autostrada urbana di cui la Ford Foundation commissionò uno studio di fattibilità a Paul Rudolph. Quest’ultimo, al tempo all’apice della sua carriera come potente e rispettato preside della facoltà di architettura di Yale, concepì una colossale megastruttura su più livelli a sezione triangolare, un dispositivo lineare che inglobava infrastrutture, servizi, residenze e spazio pubblico, destinato a solcare (e distruggere, se mai fosse stato realizzato) gran parte dei quartieri di SoHo e TriBeCa. Alla fine degli anni ’70, Rudolph attraversa una crisi non meno intensa di quella della città dove vive e lavora. Omosessuale chiacchieratissimo ma per sempre in the closet, colui che fu il candidato favorito al trono di architetto più influente d’America ha rifiutato di diluire i principi della sua ricerca estetica e della sua etica professionale nell’ambiguo calderone del postmoderno in ascesa, ed è ormai relegato a un ruolo di outsider, una voce sempre autorevole ma scomoda ed emarginata.

Proprio nel 1977, mentre le commissioni statunitensi si diradano, dà il via alla costruzione della sua personale penthouse nell’elegante quartiere di Turtle Bay, a Manhattan, a due passi dall’East River. All’epoca la città è un organismo incontrollabile, in preda alle forze oscure della malavita, che dagli altri borroughs s’infiltrano sull’isola attraverso le periferie interne di Harlem e di Alphabet City. La casa di Rudolph, prudentemente “appoggiata” sopra una brownstone di metà ottocento, è una reggia dai lussi sibaritici che da un lato dimentica il mondo esterno, dall’altro riproduce la complessità delle visioni urbane del suo autore. Come il progetto per la Lower Manhattan Expressway, anche quello per la penthouse può essere compreso unicamente attraverso le sue sezioni. Solo così si può apprezzare l’articolazione su quattro livelli a più riprese sfalsati, lo spazio realmente monumentale del salone a tutta altezza, il sovrapporsi delle sale aperte agli ospiti (verso sud) e degli ambienti della zona notte (verso nord) connessi da una sequenza di passerelle aeree, l’aggetto spericolato delle molte terrazze, di cui la principale ospita un giardino pensile segreto, invisibile dalla strada.

Rudolph costruisce un labirinto e per renderlo ancora più inaccessibile ne confonde le geometrie in un caleidoscopio di superfici lucide, riflettenti, trasparenti. Acciaio e vetro sono i materiali “industriali” glorificati dall’architettura moderna, di cui ha appreso l’utilizzo ortodosso nel corso dei suoi studi con Walter Gropius ad Harvard: nella penthouse, li libera del valore ideologico di cui erano stati caricati e ne fa i tasselli di una magistrale performance di illusionismo spaziale. Le scale sono in vetro e non hanno corrimani, il metallo lucente smaterializza le travi a vista, mentre frammenti di vetrate rivelano fugacemente ciò che avviene negli ambienti più privati (persino nelle salles de bain!). Infine, la vasca trasparente sfonda la parete del bagno signorile e incombe al di sopra della cucina, rivelando le nudità dell’incauto bagnante in un vertiginoso sottinsù prospettico.

La penthouse rifiuta l’immaginario tradizionale e famigliare della “home, sweet home”, ma anche la colta raffinatezza delle case study houses moderniste. Piuttosto, questa casa-caverna è un palcoscenico senza backstage, un teatro senza quinte e senza sipario, dove ogni visitatore è il personaggio di uno spettacolo senza intermezzi. L’architetto, il suo amante segreto, gli amici più cari, gli ospiti istituzionali e quelli occasionali: tutti sono le pedine di un sensuale gioco delle parti, ironico o forse serissimo, in cui ciascuno oscilla continuamente tra il ruolo del voyeur e quello dell’esibizionista.

Story . Alessandro Benetti