Uno dei talenti ormai emersi sulla scena internazionale, di nascita e formazione a Beirut, cresciuta tra Parigi e Londra, cittadina del mondo, ossessionata dall’archeologia del presente.
Luca Molinari (LM): Ciao, grazie per essere “qui”: io a Milano e tu a Tokyo. Ricordo ancora la prima volta che qualcuno mi parlò di te; fu Bernard Khoury che mi disse che c’era una giovane architetta emergente di origine libanese, che lavorava in Francia e che era fantastica. Poi abbiamo scoperto il tuo lavoro e ora possiamo dire che ti sei completamente affermata.
Lina Ghotmeh (LG): Grazie.
LM: Sono felice di aver visto il tuo percorso crescere nel migliore dei modi e sono molto felice che tu abbia il riconoscimento che meriti. Per raccontarti, iniziamo dalle origini, potresti presentarti attraverso gli elementi, le esperienze e gli incontri che hanno influenzato il tuo lavoro?
LG: Come sai, tutto è iniziato a Beirut dove sono nata e cresciuta. Mio padre, invece, è originario di un piccolo villaggio e per questo ho sempre vissuto una doppia relazione tra la città di Beirut e la natura, la città urbanizzata e un bellissimo paesaggio montano. Ho studiato architettura all’American University a Beirut, in una città che ha vissuto una distruzione costante e nella quale si cresce pensando a come contribuire a migliorare le cose, guarire la città o riunire le persone. Per me, l’architettura è diventata un modo per reagire e agire nell’ambiente in cui sono cresciuta.
Allo stesso tempo, studiare all’American University a Beirut è stato fantastico perché implicava guardare all’architettura attraverso altre discipline, come la biologia, la medicina, le scienze politiche, la sociologia e l’antropologia, e perché rendeva chiaro come l’architettura fosse la quintessenza di varie discipline che trovavano appunto nell’architettura un luogo di incontro.
Durante i miei studi, ho avuto la possibilità di fare uno stage presso lo studio di Jean Nouvel a Parigi. Era la prima volta che viaggiavo in Europa ed era molto affascinante scoprire Parigi, una città molto diversa da Beirut. Lo stage andò molto bene e una volta completato il mio diploma a Beirut fui richiamata da Jean Nouvel per lavorare su un progetto che lo studio stava portando avanti a Beirut. L’idea era di venire a Parigi, lavorare su questo progetto nel centro città per alcuni mesi e poi tornare a Beirut per aprire uno studio e lavorare sul progetto direttamente da lì.
Quindi, feci le valigie e in una settimana mi ritrovai a Parigi a lavorare nello studio di Jean Nouvel. A questo punto, il progetto a Beirut si bloccò, e qui ebbi la possibilità di trasferirmi a Londra per lavorare su un progetto che Jean stava curando con Norman Foster. Questa esperienza è stata un’altra grande opportunità di formazione perché combinava architetture e impostazioni al progetto molto diverse tra loro. Dopo due anni e mezzo (quasi tre anni passati con loro) partecipai al concorso per il Museo Nazionale Estone.
LM: Il tuo primo lavoro che abbiamo pubblicato su Platform e che è stato premiato all’Archmarathon!
LG: Sono sempre stata molto interessata a guardare i concorsi, ed ero molto giovane, avevo 25 anni, e mi piaceva l’idea di esplorare qualsiasi opportunità di lavoro e progetto. Trovai questo incredibile concorso per un Museo Nazionale di 40.000 mq in Estonia. Non sapevo molto del paese, ma sapevo che aveva vissuto una storia tumultuosa tra guerre e l’occupazione sovietica. Descrivevano il museo come un luogo nel quale costruire l’identità del Paese, con un approccio etnografico e aperto; era tutto molto interessante e stimolante.
Mi chiesi come affrontare questo progetto e decisi di proporlo ad alcuni miei amici, ex partner, e colleghi che lavoravano nello studio di Jean Nouvel e un’altra azienda a Londra. Suggerì di partecipare a questo concorso, e vincemmo. A 26 anni, firmai il contratto e arrivai in Estonia.
Il progetto estone è stata una grande esperienza perché si trattava di ideare un progetto che era sentito come molto importante per un’intera nazione. Abbiamo lavorato con il governo e messo insieme un team che potesse guidare il progetto sia in Estonia che in Francia. Dato il significato nazionale del progetto e gli aspetti legati al budget, ci sono voluti 10 anni per completarlo, il che è normale per questi tipi di progetti. Mentre lavoravo su questo edificio, il Quai Branly veniva completato, e anche il Louvre Abu Dhabi era in corso. Questo dimostra come i progetti architettonici significativi possano a volte richiedere una vita per essere conclusi. Dopo aver consegnato questo progetto, ho ristabilito e trasformato la vecchia partnership, e poi, nel 2016, ho fondato il mio studio.
LM: E poi è iniziata una nuova storia. È molto interessante perché ora, ogni volta che ascolto la tua storia, capisco perché usi così spesso la parola archeologia. È un’archeologia del dopoguerra e, al contempo, un’archeologia del futuro. È molto interessante vedere perché sei così ossessionata da questa parola. Per questo numero di Platform abbiamo deciso di mantenere la parola memoria come titolo chiave, il che è perfetto perché in un certo senso oggi una nuova generazione di architetti sta lavorando con un’idea di memoria legata al contemporaneo e una ridefinizione del termine archeologia, guardando alle rovine del secolo scorso. A Beirut, il primo edificio che hai costruito era in un’area stratificata e contraddittoria, difficile. In Estonia, hai progettato un museo partendo da un edificio esistente del periodo post-bellico: un aeroporto sovietico. Stiamo tutti affrontando rovine, rovine contemporanee. Cosa ne pensi?
LG: Sì, la nozione di archeologia è emersa crescendo a Beirut. Ogni volta che costruisci qualcosa di nuovo a Beirut, scopri le archeologie del passato. Questo mi ha fatto sempre pensare a come l’architettura sia legata alla terra: emerge dalla terra, si consuma e torna ad essere terra. Quando parlo di archeologia, mi riferisco a un processo di pensiero in cui l’architettura non è solo un oggetto che si trova nel suo luogo, ma emerge dal suo luogo, incorporando ciò che è accaduto e creando un filo comune, intrecciando l’edificio al suo ambiente. Questo approccio ci permette di considerare l’ambiente in un senso più ampio, come risorsa o costrutto sociale e dinamica politica rendendo l’architettura la quintessenza formale di questi elementi.
Questa complessità nel pensare è oggi essenziale perché ci aiuta ad abbracciare le complessità delle nostre vite e di rivolgerle nelle nostre pratiche. La questione della memoria è molto importante, soprattutto a Beirut, dove siamo sempre alla ricerca di identità, sia come persone che nel contesto più ampio di comunità che abita il nostro mondo di oggi. La memoria coinvolge la memoria fisica negli spazi costruiti e la memoria dei nostri antenati, mostrando come ci sia una sorta di continuità tra l’ambiente, la natura e il nostro DNA.
Questa prospettiva dà profondità alla nostra percezione dello spazio e porta la capacità di dialogo nell’architettura. Se intendiamo l’architettura come incubatrice di memorie, possiamo comunicare e condividere più contenuti e emozioni con le persone che abiteranno quell’architettura. Ad esempio, il progetto Stone Garden a Beirut è nato dalla rilettura dei momenti vissuti in guerra, dalla città segnata dai proiettili e dall’idea di reincarnare la memoria della città attraverso l’architettura. In questo modo, combattiamo contro l’amnesia e la possibilità di dimenticare la guerra, che potrebbe portare alla sua ricorrenza. L’architettura può trasformare quella memoria dolorosa in qualcosa di positivo, non solo in superficie ma integrando la vita nella sua essenza, portando la natura al suo interno, cambiando il modo in cui osservare l’esterno dal tuo appartamento e trasformando le relazioni interno-esterno attraverso le specifiche qualità dell’involucro architettonico.
LM: Non si tratta più di memoria come nostalgia, ma memoria come strumento politico.
LG: È uno strumento politico, ed è anche uno strumento sensibile. Nella memoria sono radicate le emozioni e le sensibilità da rivolgere al nostro ambiente. Guardando agli eventi attuali in tutto il mondo, è necessario più che mai ravvivare le nostre memorie, ravvivare le nostre storie per ottenere una conoscenza più approfondita dei luoghi che abitiamo.
Penso che l’architettura intesa come strumento per diffondere la conoscenza e incarnare la storia, possa parlare di eventi e di ciò che è accaduto in un luogo, o favorire nuove relazioni sociali e spaziali. Ad esempio, molte persone che hanno vissuto nell’edificio a Beirut hanno detto di percepirlo come familiare. Questo senso di “ancoraggio” riguarda la memoria profonda di un luogo. Così è accaduto in Estonia con la presenza dell’edificio dell’aeroporto. Si tratta della storia del luogo – un’ex base militare sovietica – e di come un edificio possa incarnare il passato quando quegli aerei atterravano su quel terreno. L’ingresso del museo con il suo sbalzo diventa l’ala dell’aereo facendo propria formalmente quella storia.
LM: Se considero alcuni dei tuoi lavori, la torre a Beirut, la torre di legno a Parigi, il tuo padiglione al Serpentine, il nuovo progetto per il museo d’arte contemporanea in Arabia Saudita e altri lavori che ho visto di recente, penso che tu stia lavorando molto per rimodellare l’idea di “monumento contemporano”; è una parola difficile, ma ne abbiamo ancora bisogno perché un monumento è un luogo che in un certo senso incarna una generazione, una comunità, una gerarchia fisica, una gerarchia simbolica, una gerarchia urbana, e tutti i tuoi lavori hanno trattato questi aspetti. Plasmare l’idea di cosa significhi progettare una nuova istituzione per una comunità, ma anche nel frattempo progettare qualcosa che sia radicato nel suolo, nella storia, ma allo stesso tempo, proiettato al futuro. Quindi qual è la tua idea di monumento contemporaneo? Cosa significa per un architetto affrontare una parola così difficile ma necessaria?
LG: Nella mia mente, quando penso a un monumento, penso a qualcosa di “stagnante”. Per questo motivo tendo sempre a ripensare e creare memoriali/monumenti che siano attivi; li chiamerei in un modo più contemporaneo “eco-monumenti”. Vedo l’architettura come un insieme di punti di riferimento, momenti che creano silenzio e aperture all’interno delle linee temporali. L’architettura può farti fermare e pensare. Questo è ciò che i monumenti dovrebbero fare: farti fermare, riflettere e diventare punti di riferimento per riunirsi e ristabilire relazioni, modellandole diversamente e permettendo punti di messa a fuoco.
Ma sono anche interessata al fatto che l’architettura ha una presenza, un’aura, la capacità di dissolversi, di scomparire. Ad esempio, l’ultimo progetto che ho pensato per la manifattura di pelle Hermès riguardava un edificio industriale. Tipicamente, quegli edifici sono votati alla sola funzionalità e risultano banali; spesso sono costruiti in metallo. Mi sono chiesta cosa potesse diventare “di altro” un edificio industriale e come potessi dargli dignità. Quel progetto è stato l’occasione di costruire una riflessione su come poter costruire architetture industriali in modo diverso riportando la bellezza nei paesaggi in cui questi edifici sono collocati.
Questa dualità di presenza e assenza nell’architettura è ciò che mi interessa. Possiamo creare edifici industriali che migliorino la bellezza dei loro dintorni e incarnino caratteri di presenza che di assenza? Questa è l’essenza di ciò che sto esplorando nell’architettura.
LM: Mi piace l’idea che per te l’architettura sia una questione aperta sulla realtà, che è sempre un modo di ripensare ciò che apparentemente non è discutibile. Ogni tipologia è una forma di evidenza culturale. Quindi, quando cambi la dimensione culturale, cambi anche la prospettiva con cui progetti l’architettura, il che è molto importante per il tempo in cui viviamo, un tempo con questioni aperte, urgenti e molto importanti. In un certo senso, concordo pienamente che l’architettura sia uno strumento politico; ma allo stesso tempo, l’architettura può essere un modo per offrire una risposta diversa al cambiamento dei tempi?
LG: Sì, ci dà una risposta diversa. Ci permette anche, come architetti, di essere costantemente al crocevia, anticipando nuovi modi di fare le cose mentre affrontiamo urgenze. Oggi, ci troviamo di fronte a problemi come il cambiamento climatico, le guerre e le migrazioni, e ci chiediamo spesso come possiamo acquisire più strumenti per essere più attivi e utili nella nostra società e meno definibili come “creatori elitari”. Questa è una domanda cruciale: come possiamo spingerci a trovare nuovi modi per fare tutto quello che abbiamo fatto fino adesso?
Ad esempio, consideriamo la questione delle risorse. Che tipo di materiali possiamo usare? Come possiamo incorporare più materiali bio-sourced e geo-sourced? Dovremmo incoraggiare le industrie a muoversi verso materiali più sostenibili. Questo approccio non solo affronterebbe le sfide attuali ma promuoverebbe anche un cambiamento verso pratiche più sostenibili nell’architettura e nell’industria.
LM: Sì, questa tua considerazione conduce a una domanda urgente. Cosa significa pensare in modo sostenibile oggi? Dopo 30 anni, non è più una questione tecnica ma è piuttosto un approccio culturale; un modo diverso di utilizzare le risorse e anche di definire la durata di vita di un edificio, che è diversa. Nulla è eterno, così l’architettura in un certo senso segue ciò di cui abbiamo bisogno in modo molto generoso e in continuo cambiamento. Recentemente ho lavorato molto, sempre di più, su questa idea di sostenibilità come modo di lavorare sui materiali. Quindi si tratta di mettere in discussione i materiali in modo diverso.
LG: Penso che la sostenibilità sia più di una semplice ecologia. Costruire deve essere utile. Penso sempre all’energia impiegata per progettare e costruire un edificio e all’impatto che ha sul suo ambiente specifico. Quando decidi di costruire, deve valerne la pena; quello sforzo deve portare qualcosa di positivo alla fine, così come l’impatto della costruzione deve essere positivo. L’architettura ha la responsabilità di avere un impatto positivo sul suo ambiente, incluso in termini di consumo energetico, impronta di carbonio e utilizzo dei materiali, così come la sua capacità di costruire conoscenza attraverso i processi di costruzione.
Si tratta di un pensiero olistico. Non si tratta solo di costruire con il legno per essere sostenibili; si tratta anche di includere un ragionamento sulla sostenibilità sociale dell’intero processo. Me ne sono resa conto ulteriormente quando abbiamo costruito l’edificio in mattoni per Hermès. Il progetto è diventato una rivitalizzazione di una tecnica di produzione di mattoni dimenticata e che faceva capo alla tradizione della zona. Abbiamo lavorato con gli artigiani per costruire nuovamente con i mattoni e abbiamo reperito i materiali localmente. L’intera costruzione è diventata interattiva, combinando la conoscenza edilizia degli artigiani con le nostre tecnologie attuali. Questo processo ha generato una bella esperienza architettonica, permettendo alle persone di lavorare in comfort e di godere del loro luogo di lavoro.
Questo equilibrio ci insegna che si può creare un’architettura con un impatto positivo distribuendo energia all’ambiente e rimanendo ancorati alla terra. Non deve necessariamente apparire high-tech o aliena, ma dovrebbe essere radicata in pratiche sostenibili e socialmente responsabili.
LM: Sono molto interessato all’idea di sostenibilità sociale perché ha progettato diversi edifici per le comunità. Ricordo il tuo padiglione Serpentine, e penso che probabilmente il nuovo padiglione di Osaka che stai progettando per il Bahrain sarà un altro edificio comunitario, e il museo è un altro esempio del tuo lavoro. Quindi non pensi che oggi sia molto importante immaginare edifici generosi? Se nel XX secolo l’idea era “la forma segue la funzione”, oggi direi che “la forma segue la generosità”, il che significa offrire possibilità senza conoscere precisamente i confini entro i quali il progetto si muoverà nel tempo.
LG: Sì, e aggiungo che la generosità non riguarda l’eccesso. Per me la generosità è essenzialmente una questione di cura: costruire con cura e abbracciare le persone in un luogo, portando calore, intimità e riunendo le persone. Non si tratta dell’ego dell’architetto o dell’architettura d’autore; si tratta di offrire benessere profondo per le persone che abitano in un luogo. Il padiglione Serpentine esemplifica questo assunto. È un ambiente sereno che misura la natura intorno ad esso, cambiando umore con l’esterno e permettendo alle persone di dimorare intorno allo stesso tavolo. Le persone lo usavano come un luogo quotidiano, venendo, andando, scrivendo, giocando, lavorando…
A Osaka, me ne sono resa conto ancora di più. Il progetto è nato dalla ricerca di ciò che le conoscenze costruttive giapponesi condividevano con la cultura del Bahrain. Era essenziale per questo padiglione temporaneo che potessimo riutilizzare tutti i materiali utilizzati per la costruzione, rendendoli nuovamente parte dell’economia. Sia le culture giapponesi che quelle del Bahrain hanno una storia condivisa con la lavorazione del legno, le barche e il mare. Quando ho incontrato gli appaltatori, nonostante l’ambiente teso per le ambizioni determinate dall’evento, erano felici di costruire questo progetto e che si riconoscevano, identificavano in esso. Questo è stato sempre molto importante per me: i costruttori, i creatori e la comunità devono identificarsi con l’architettura fatta per loro.
In questo progetto, niente è laminato; ci sono solo elementi in legno assemblati insieme. Per le esposizioni dove si crea tipicamente molto spreco, qui non verrà sprecato nulla. Le fondazioni del padiglione sono molto leggere. Questo sentimento comunitario non riguarda solo il come si utilizza l’edificio, ma riguarda soprattutto il processo di creazione e costruzione dell’architettura. Questo dialogo spesso viene meno nei nostri paesaggi edificati.
LM: Mi piace il fatto che utilizzi spesso il termine “gioia” perché viviamo in un mondo così teso in questo momento e stiamo entrando in una fase della storia dove la tensione è quotidiana e anche le preoccupazioni. E quindi parlare di architettura in combinazione con la gioia, penso sia molto importante perché probabilmente è il miglior modo in cui noi architetti possiamo essere politici, generare felicità, generare qualcosa che dia speranza alla comunità.
LG: Sì Luca, penso che la felicità, la gioia e la bellezza siano i modi per riunire le persone, colmare le lacune e promuovere la non-violenza. Quando sei in un luogo nel quale percepisci rispetto e dignità, ti senti più sereno come essere umano. Se possiamo lavorare, progettando, per giungere a tale obiettivo sarebbe fantastico.
LM: E non vedo l’ora di vederti in Europa quando tornerai. Buona fortuna per Osaka. Quando aprirà l’Expo?
LG: Sarà l’anno prossimo.
Testo di Luca Molinari
Didascalie e crediti fotografici (dall’alto in basso)
– Cover, Lina Ghotmeh Portrait – photo by Hannah Assouline
– Lina Ghotmeh Portrait – photo by Harry Richards
– Estonian National Museum, Tartu, Estonia, Ethnographic Museum – Ph. © Takuji Shimmura, courtesy to DGT 2006-2016
– “Precise Acts”, Atelier Hermès, France, © Lina Ghotmeh – Architecture – Ph. © Iwan Baan, © Hermès, 2019-2023
– “A table”, Serpentine Pavilion, London, United Kingdom, © Lina Ghotmeh – Architecture – Ph. © Iwan Baan, Courtesy: Serpentine 2022-2023
– “Stone Garden”, Beirut, Lebanon, Housing and Mina Art Foundation, © Lina Ghotmeh – Architecture – Ph. © Laurian Ghinitoiu, 2011-2020
– Bahrain Pavilion, Osaka Expo, Osaka, Japan, © Lina Ghotmeh – Architecture, 2023-2025
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