Grafton Architects

Paolo Baratta, il presidente della Biennale di Venezia, riesce sempre a sorprenderci individuando i curatori per la nuova Mostra Internazionale di Architettura tra quegli autori che hanno la possibilità di attivare uno sguardo diverso, mai mainstream, sulle questioni urgenti che caratterizzano il nostro mondo.

La chiamata delle irlandesi Yvonne Farrel e Shelley McNamara, in arte Grafton Architects, va in questa direzione e suscita molta curiosità su quello che verrà presentato nei prossimi mesi. Platform le incontra in anteprima per ascoltare la loro visione e filosofia di lavoro.

LM | Platform utilizza come aggettivo chiave “partecipazione”, intendendo con ciò un coinvolgimento diretto partecipazione alla vita della comunità per garantire la qualità del luogo in cui si vive. L’ho trovato molto in sintonia con il vostro Manifesto Freespace per la prossima Biennale di Architettura in cui parlate di generosità e umanità, i due obbiettivi a cui dovrebbe mirare l’architettura nei prossimi decenni per quanto riguarda la sua percezione tra le persone comuni.

G | È importante ricordarsi che l’architettura è una disciplina molto complessa. È un lavoro difficile che richiede di considerare più cose contemporaneamente. Ci domandiamo sempre qual è il nostro ruolo e che cosa stiamo cercando di fare. L’esperienza acquisita in questo lavoro accresce la nostra consapevolezza dell’importanza di quanto restituiamo alla società, oltre ad avere a che fare con clienti, soldi e funzioni. Gli architetti studiano le necessità dei committenti per ogni singolo progetto. Non possono realizzare niente di buono se non analizzano nel dettaglio tutti i requisiti. In quanto tali, però, dobbiamo essere in grado di fare un passo indietro e vedere il quadro generale per poterci, poi, interrogare sul significato dell’architettura rispetto alla società e sul contesto globale.

Dobbiamo mettere a fuoco il più dettagliatamente possibile le richieste fondamentali, ma, allo stesso tempo, allargare il punto di vista per vedere il quadro generale. L’esperienza lavorativa ci fa sempre più capire che a volte “ciò che non è richiesto” è la cosa che rende il progetto davvero speciale. “Ciò che non è richiesto” è la voce da inserire nell’ordine del giorno di un architetto. Per intenderci, nel Manifesto Freespace facciamo specificamente riferimento a uno splendido progetto in via Quadronno a Milano degli architetti Mangiarotti e Morassutti. Siamo rimaste profondamente colpite dal modo in cui l’edificio consente alle persone di sentire un intento diverso: è un’architettura che presenta un sistema di valori differente. Si tratta, però, di un sistema di valori meno comune nelle costruzioni contemporanee, dove si ha davvero la sensazione che l’architetto stia pensando all’essere umano come all’utente. Questa concezione è il punto di partenza, non un qualcosa in più. L’edificio non è narcisistico.

La sua forma è estremamente forte: è una piccola torre auto-affermativa che cerca, comunque, di aprirsi alla società esterna, evitando di piegarsi sulla personalità dell’architetto e facendo riferimento a un contenuto umanistico, già presente fin da subito nel programma degli architetti. L’edificio è un esempio del modo in cui concepiamo l’idea di generosità, che ci ha spinto a chiederci cosa c’è di più, qual è il valore aggiunto che l’architettura porta in un progetto e che crea un collegamento con la società. È un ingrediente molto importante su cui vogliamo concentrarci per la Biennale Architettura. È un componente aggiuntivo, a volte estremamente delicato, a volte particolarmente forte, che deve comunque essere presente nella matita che impugni, fin dal momento in cui inizi a pensare al progetto. Che cosa stiamo cercando di fare? Qual è il nostro ruolo nella società? Sono due domande che hanno a che fare con generosità e umanità. Il nostro intento è rendere nota l’enorme componente culturale dell’architettura, usando un linguaggio che risulti accessibile non solo ai professionisti, ma anche alla gente comune. L’architetto si occupa delle attività costruttive e, anche se le pressioni professionali sono notevoli, quando il progetto è finalmente completato, ogni tensione svanisce e il concetto così sviluppato assume una forma che esiste di per sé. È importante trovare le energie e un sistema di protezione che difenda il cuore dell’architettura. Ed è questa la ricerca contenuta nel Manifesto. Pensandoci, abbiamo scoperto che un Manifesto avrebbe potuto essere un elenco di aspirazioni, una sorta di litania scritta su cui rimuginare nella speranza di chiarire a un pubblico più vasto ciò che appariva tanto complesso. In futuro, ci piacerebbe che il Manifesto diventasse uno strumento utile per chi non è un architetto, una sorta di misura che consenta ai non addetti ai lavori di cercare le componenti di generosità e umanità nei progetti in cui potrebbe essere usato come parametro di confronto e valutazione.

LM | Penso che il cosiddetto “Freespace”, vale a dire lo spazio libero, sia un cambiamento concettuale sottile e diretto rispetto al secolo scorso, in cui l’interesse era rivolto inscatolare ogni cosa. Oggi, invece, vista la centralità di tale libertà, la situazione è esattamente capovolta e mostra come le persone siano alla ricerca di spazi che consentano di vivere esperienze diverse. Ci troviamo ad affrontare una fase storica completamente unica, dove gli spazi liberi sono probabilmente i luoghi in cui la comunità contemporanea può mostrarsi e trovare un modo per esprimersi.

G | È un ideale estremamente impegnativo per il futuro. Che tipo di comunità avremo? Dove s’incontreranno le persone? Sono domande particolarmente importanti nel mondo moderno delle cyber comunicazioni. L’architettura assume un ruolo importante perché le costruzioni ci sostengono e delimitano i nostri spazi. Oggi più che mai, sentiamo la criticità del ruolo dell’architettura. L’impatto delle forme costruite su quanto viviamo tutti i giorni è immenso. Una delle cose che amiamo del Manifesto Freespace è la risposta delle persone al “pianeta Terra come cliente”. È una responsabilità enorme, non solo in termini di aria che respiriamo, ma anche del modo in cui sfruttiamo le risorse del pianeta. Ad esempio, come usiamo legno o pietra negli edifici? Da dove proviene il materiale? Quanto “consumiamo” della Terra, delle risorse esistenti? Speriamo di aumentare la consapevolezza delle persone sulla nostra professione. Ogni volta che indichiamo l’uso di un materiale specifico, intacchiamo una montagna o tagliamo una foresta… Nel Manifesto, facciamo riferimento a Jørn Utzon, che ha firmato molti progetti bellissimi. Abbiamo evidenziato la seduta in cemento e rivestita in piastrelle che realizzò all’ingresso della sua casa Can Lis a Maiorca, che “sostiene” perfettamente il corpo in modo confortevole. Su un’altra scala, il progetto di Utzon del teatro dell’opera di Sidney rappresenta una società, l’Australia. L’architettura ha la capacità di passare dall’intimo e tattile alla rappresentazione, per assurgere a simbolo di una nazione. L’architettura è una disciplina incredibile che abbraccia un’ampia serie di scale.

G/Sh | Mi interessa molto il termine che hai usato parlando dell’architettura come qualcosa che racchiude in una scatola. Di recente, abbiamo letto un saggio sul Corridoio Vasariano a Firenze. È una straordinaria critica della cultura e di come è stato o non è stato integrato nella città. Si tratta di una straordinaria idea del Corridoio Vasariano come percorso che parte da un palazzo un tempo usato come uffici, su per una scala e poi attraverso un ponte, dentro una torre fino a un altro palazzo che si affaccia su dei giardini. Confrontalo con la necessità contemporanea di trasformare i musei in scatole ermetiche, in una scala molto ampia di elementi che per loro natura e per la loro scala risultano isolati e, a causa di questioni di sicurezza, lo diventano ancora di più! È un’architettura che diventa sempre più ermetica e difensiva! È estremamente importante in cui certi usi sono “impacchettati” e presentati. Noi preferiamo un’idea di apertura, piuttosto che di chiusura. Ovviamente, l’architettura deve avere alcuni elementi di carattere difensivo perché non si può essere uccisi, assaliti o ricevere un colpo di pistola in una città! Il ruolo dell’architettura può superare la paura, i soldi e tutte le pressioni per arrivare a trovare alcuni componenti che risultano generosi e aperti.

G | Quando si parla di futuro, l’integrazione di struttura e paesaggio può essere liberatoria. In alcuni progetti, abbiamo scoperto che bastano solo 300 mm di terra per permettere alle piante di prosperare nel tempo. Architettura e paesaggio possono unire le forze per godere del piacere della natura. Uno degli aspetti del Manifesto è un incoraggiamento a usare le piante, anche se magari non vivremo abbastanza per apprezzarne i frutti in futuro. Vorremmo che le persone potessero essere consapevoli del tempo che passa. Con il nostro lavoro, creiamo infrastrutture per la vita dove indoviniamo come sarà il futuro. Gli architetti possono creare spazi dove favorire l’incontro delle persone. Per nostra fortuna, gli esempi esposti all’edizione di quest’anno della Biennale Architettura favoriscono il cambiamento. Stiamo cercando di instaurare una discussione sulle creazioni fattibili, non soltanto sulle idee fini a se stesse.

LM | Leggendo il Manifesto, ho molto amato uno degli esempi portati relativamente al Palazzo Medici Riccardi di Firenze. Sono sempre rimasto colpito dal fatto che questi palazzi hanno tutti una panchina in pietra sulla facciata, uno spazio comune che accoglie le persone, un pensiero generoso per la comunità. Questa riflessione mi porta a un’altra questione importante: voi possedete un background come progettiste, nel senso che cercate sempre di combinare i contenuti di cui parlate con corpi veri, spazi e forma e questo per me è il risultato finale dell’architettura. Qual è, secondo voi, il rapporto tra la creazione di una nuova lista di valori e la definizione contemporanea delle forme?

G/S | Non sono così sicura che sia qualcosa di nuovo. In un certo senso, stiamo cercando di ricordare i vecchi programmi unitamente a quelli futuri. Quando si parla del Palazzo Medici, la lezione da imparare è ancora grande. Si può pensare a qualcosa di difensivo per una banca che deve custodire i soldi, ma si può anche essere generosi nei confronti della società con qualcosa di molto semplice ed economico. Direi che stiamo effettivamente ricordando e rivisitando i valori del passato, che sono molto più sofisticati sotto vari aspetti rispetto a quelli moderni e cerchiamo di traghettare queste lezioni nel futuro. Ad esempio, una delle cose che ci siamo sempre domandate è il perché ci interessa tanto l’architettura eroica. Non è che ci siamo mai dette di essere interessate all’architettura eroica o monumentale, ma quando visitiamo gli edifici antichi ci sentiamo magnificamente in quegli spazi. Percepiamo il senso della massa, la forza di gravità, sentiamo i materiali e le vite degli altri. Così ci siamo chieste: “possiamo far qualcosa che tocchi le stesse corde oggi?” Per quanto riguarda il nuovo, siamo grandi sostenitrici della definizione di tempo di T. S. Eliot, che parla di passato, presente e futuro in un’unica sfera e di come il nuovo potrebbe essere una continuazione dal primo secolo a.C., anche se non la vediamo esattamente così. Pensiamo che anche le novità siamo importanti. Non siamo così nostalgiche del passato perché a volte si vedono delle opere, come un paio di esempi presenti alla Biennale, in cui si ritrova un’interpretazione più fresca di qualcosa di famigliare. È sempre stimolante tutto ciò. È la perfetta sintonizzazione di qualcosa che è familiare, che però ha un’altra dimensione, un’altra lettura.

G/Y | Quello che pensiamo sia davvero importante, Luca, è la questione delle dimensioni. L’architettura provoca una reazione fisica nelle persone. Può farti sentire più umano. In alcuni luoghi, l’architettura può spaventare perché è proprio questo il suo intento. D’altro canto, ricordo che quando ho visto per la prima volta il complesso urbanistico veronese di Castelvecchio di Carlo Scarpa, il progetto era talmente perfetto che ho “sentito” che gli scalini mi chiamavano per nome, spingendomi a salire la splendida scala. Per quanto riguarda lo spazio alla Biennale, sarebbe fantastico se le persone potessero acquisire consapevolezza della loro realtà di essere umani di una determinata dimensione in uno spazio particolare. Vorremmo che le persone fossero più consapevoli della loro presenza fisica nella società moderna. La vita di oggi tende a farti dimenticare che sei un essere umano con dei sensi. La cosa veramente interessante per noi come curatrici di questa immensa esposizione è poter incoraggiare le persone a ricordarsi di trovare il tempo per divertirsi, sedersi o stare in piedi, camminare o rendersi conto delle dimensioni che ci circondano, pensare che gli architetti rispondono alle esigenze dell’umanità con una splendida ringhiera, una magnifica maniglia, una parete o una panchina. Ci auguriamo che la Biennale possa incoraggiare le persone a pensare alla visione globale e infrastrutturale su larga scala dell’umanità, oltre ai doni gratuiti del chiaro di luna, della luce del sole e delle ombre, e a immaginare un futuro in cui comfort e artigianato sono collegati con l’architettura.

LM | Ciò che chiamate il rapporto tra arcaico e contemporaneo ritengo debba essere considerato come qualcosa di universale, percepibile ovunque, una sorta di atteggiamento naturale dello spazio architettonico che ci rende, in qualche modo, degli “architetti naturali”. Ciò che pensate và oltre la moda e i cambiamenti di gusto e riconduce l’architettura ai concetti di base, a qualcosa che tutti possono capire. Oggi una delle sfide da affrontare sia come riportare le persone a vedere l’architettura come un valore sociale, come qualcosa che ha un effetto lenitivo, che aiuta le persone a stare insieme, a demolire le distanze, oltre a un valore politico molto forte che penso sia necessario oggigiorno.

G | Parliamo della dimensione politica dell’architettura, del suo potenziale come collante sociale, del ruolo di contenitore informato della società. Nella nostra professione, cerchiamo soluzioni che consentano alle persone di interagire tra di loro, di essere consapevoli gli uni degli altri. Kenneth Frampton sostiene che gli architetti hanno perso la capacità di creare gli spazi che aiutano a unire le persone. Abbiamo usato la sua dichiarazione come provocazione. Il motivo che ha condotto a questa situazione ha poco a che fare con gli architetti. Il fatto è che gli architetti sono praticamente privi di potere. C’è qualcosa d’importante per noi di cui parlare per quanto riguarda la nostre scelte dei progetti da esporre alla Biennale Architettura 2018.È una questione di scala. In realtà, una serie di scale… Crediamo che tutti i progetti, grandi e piccoli, influenzino la società. È importante porsi delle domande: come può un piccolo progetto influenzare i grandi problemi della società? Come può riparare gli errori della società? Si potrebbe pensare che non sia possibile in un certo senso, ma… d’altro canto, è incredibile come qualche volta i piccoli progetti possano trasformare una situazione. Pensando in modo molto aperto, un piccolo progetto può riformare il modo in cui affrontare un progetto più grande e viceversa. Probabilmente esiste un problema intrinseco nel modo in cui alcuni progetti principali sono concepiti a livello astratto, dove l’esperienza tattile del singolo non è considerata allo stesso modo di una strategia per il traffico o l’infrastruttura. Unire simultaneamente scale di grandi e di piccole dimensioni è davvero importante. Siamo piuttosto ottimiste nel pensare che esistano architetti che lavorano con sincerità, passione e capacità, ponendo l’accento sulla società. Il problema delle dimensioni è fondamentale nella disciplina dell’architettura. Dobbiamo fare attenzione a ricordare la scala. Il fenomeno dell’architettura implica la valutazione delle misure.

LM | L’insegnamento è un elemento centrale della vostra Biennale Architettura. Credo sia molto importante perché l’università è probabilmente il luogo migliore per sperimentare e creare un diverso tipo di consapevolezza e coscienza sul ruolo dell’architettura nei prossimi anni.

G | Credo sia stato Josef Albers a chiedere quale sia la differenza tra insegnare e apprendere ed è qualcosa di cui abbiamo piena coscienza. Ritengo abbia a che fare con l’università, ma anche con il modo in cui l’insegnamento alimenta i fattori, perché tutti sappiamo che se siamo bloccati in ufficio con un problema e andiamo in un atelier o in uno studio, dobbiamo diventare un’altra persona, dobbiamo rinnovarci e rinvigorirci. È uno scambio a due vie! Pensiamo sia davvero importante perché l’università è come un laboratorio dell’immaginazione e studente e insegnante possono dare sfogo alla fantasia insieme, liberi dalle numerose costrizioni della cosiddetta realtà. È un posto meraviglioso dove stare e dove godere di tale libertà. Per la Biennale abbiamo scelto di concentrarci sul rapporto esistente tra pratica e lavoro pratico dell’insegnamento. Con questo non è che non consideriamo il lato accademico. Ovviamente sappiamo il valore essenziale di un corso di storia e teoria che, ovviamente, rappresenta una risorsa enorme. Per la Biennale ci siamo concentrate sul legame esistente tra chi costruisce edifici e chi non l’ha ancora fatto, andando a intaccare il modo in cui si pensa alla costruzione, ai materiali e dotando uno studente delle capacità di trattare con la realtà. L’università è il luogo in cui puoi avere molte idee, ma non è reale. Lo studio dell’architettura deve dotare lo studente dell’abilità di gestire le risorse e trattare con la realtà. Ha a che fare con la continuità dei valori, con la fecondazione incrociata tra docenti e colleghi, docenti e studenti. Come si dice, è un luogo di sperimentazione e sfida. Molti dei partecipanti dell’edizione di quest’anno della Biennale sono anche docenti e ci teniamo a sottolineare quanto siano importanti nella cultura dell’architettura. È difficile essere un praticante architetto. È particolarmente piacevole stare in compagnia di altri architetti che cercano, come te, di compiere lo sforzo enorme di fare in modo che sia un lavoro accessibile ai giovani, tanto curiosi nei confronti di questa professione. Le facoltà di architettura sono luoghi di speranza: è così che si sviluppano le cose. E qui si torna alla discussione su come le persone definiscono i loro valori, che non riguarda uno stile particolare, quanto, piuttosto, il modo in cui si sviluppa l’atteggiamento nei confronti della vita.comprendere lo stato attuale delle cose e come mutarle.