Nel suo studio, circondati dal legno di pavimenti, soffitti, maquettes e cornici di disegni, iniziamo a parlare con Michele De Lucchi di questo materiale così presente nel suo lavoro. Mi piace utilizzarlo – dice Michele – perché è il materiale più adatto a rappresentare la temporaneità rispetto alla permanenza.
Anche con le Soprintendenze, quando ho voluto fare qualche cosa di ardito e persino di violento, l’ho proposto in legno ed è stato accettato. Il legno suggerisce una temporaneità e una possibile reversibilità.
Mi interessa la superficie naturale perché conserva in sé il sapore del tempo che passa.
LB Oggi sei considerato uno dei maestri contemporanei; quali sono stati per te i riferimenti all’inizio del tuo percorso?
MDL Sono stati due i personaggi importanti, con due nomi evocativi: Ettore e Achille (Ettore Sottasass e Achille Castiglioni, ndr). Mi hanno insegnato cose diverse e a volte contrapposte tra loro; due modi di approcciare il progetto.
Ettore lavorava per addizione, come nei giochi dei bambini, mettendo un pezzo sopra all’altro, con la matita in mano.
Achille con la matita si bloccava; amava divagare. Lui mi ha insegnato a sperimentare percorsi mentali senza remore, a lasciarsi trasportare dall’ironia nel discutere su aspetti apparentemente marginali e di dettaglio, come sul lucido e sull’opaco, su un materiale, senza una meta prefissata. Il legno, in questo senso, il piacere di utilizzarlo per la sua identità fa parte di questo processo di ricerca.
La libreria “San Girolamo” fu progettata per Olivetti Sinthesys alla fine degli anni ‘80, come un’alternativa al “Nomos” di Tecno, a quell’immagine tutta acciaio, sistemica e industrializzata. Il prodotto fu capito poco allora; oggi è ancora venduto da Poltrona Frau.
LB I progetti innovativi a volte necessitano di tempo per essere compresi, ma poi il design ha capacità di reggere nel tempo; la tua lampada “Tolomeo” per Artemide, continua a mietere successi commerciali da decenni.
MDL Il design deve rispondere all’esigenza di rappresentare un valore simbolico, non solamente funzionale e resistere in modo atemporale. Con questo non intendo dire che non sia di qualità anche quel design che interpreta l’immediatezza, ma le due qualità non sono alternative; rappresentano due aspetti di un fare che deve essere calato nel tempo e andare oltre il tempo. Per esempio “Memphis” fu un fenomeno molto caratterizzato da un periodo storico preciso ed ha avuto il pregio di descrivere le esigenze, anche formali, di un determinato momento. Certo a distanza di tempo appare come un fenomeno datato, ma era evidente, allora, l’esigenza di voler essere assolutamente “moderno”.
LB Probabilmente questo atteggiamento è un destino di noi italiani che, dopo il futurismo, abbiamo questa necessità di fondo di essere sempre comunque “moderni” e critici…
MDL Sì, bella questa osservazione di legare alla tradizione della pittura i fatti legati alla produzione industriale.
LB Hai citato Memphis, qual è stato il tuo rapporto personale con quel movimento?
MDL Io non sono Memphis, va detto. Ero però, in quegli anni, realmente impossessato da Ettore, conquistato da lui e da tutto ciò che faceva. Mangiavo, scrivevo, pensavo, come lui. Era in effetti il mio maestro, anche se non accettava di essere considerato tale. Non voleva essere un maestro. Era un poeta.
LB Come nacque il vostro incontro?
MDL Andavo a studiare architettura a Firenze, preoccupato dal fatto che si trattasse di qualche cosa di molto tecnico, in cui avrei dovuto imparare formule e sistemi complicati.
Sul treno che mi portava all’università trovai un numero di Casabella con in copertina un’immagine di Ettore Sottsass che raccontava “Il pianeta come festival”; immediatamente compresi che tutto era molto più semplice e che mi interessava in modo profondo. Bastava guardare il mondo con quegli occhi.
“Saper mettere le cose sotto gli occhi della mente” – diceva Seneca. Ecco, guardare il mondo con quello sguardo mi apriva nuove prospettive. La mia frequentazione della città, dal ‘69 al ‘75, mi permise di conoscere Natalini, Branzi, gli Archizoom e tutto ciò che allora si agitava intorno ai temi dell’architettura. Fu Branzi che mi presentò Sottsass, a Milano.
LB Cosa ritieni di quel periodo e del dibattito che ha sempre contrapposto i maestri del design industriale italiano (Zanuso, Magistretti, Castiglioni) al gruppo di Memphis?
MDL Non l’ho mai vissuto come un mondo diviso. Forse veniva estremizzata questa contrapposizione all’esterno, per rendere evidenti le differenze; ma anche al proprio interno vi erano contrapposizioni forti tra Sottsass e Mendini, tra Sottsass e Branzi. La contrapposizione è una delle nostre cifre vitali. Il valore del movimento fu il proposito di portare agli estremi degli argomenti, per visualizzare soluzioni alternative. Ciò che ritengo importante è avere sempre la possibilità di ragionare sul senso delle cose.
LB Esternamente si è cercato di contrapporre un design legato all’industria a quell’operazione che intendeva essere meno succube del mondo industriale, pur finendo per essere, forse, ancora più elitaria…
MDL Si finisce per arrivare a contrapporre artigianato e industria, ma le due attività sono molto interconnesse. Alla luce dei fatti, oggi, rappresentano due facce della stessa opportunità: industrie molto attente al mercato, come Hermes, Baccarat, Sèvres, con le quali ho stabilito più recenti collaborazioni, sono molto legate alla produzione artigianale e si preoccupano che i loro prodotti siano riparabili. Il fatturato di queste aziende raggiunge anche miliardi di euro, eppure si concepiscono prodotti in cui viene valorizzata la produzione artigianale.
LB In questo senso avremmo molto da imparare per individuare opportunità di crescita per le aziende del nostro Paese…
MDL Dovremmo imparare ad utilizzare il “racconto”. In questo i francesi sono maestri; riescono a fare di ogni esecuzione un racconto memorabile.
LB Si riconosce per loro una lunga tradizione che inizia con l’impulso dato alle grandi manifatture di Stato, che anticiparono i processi di produzione industriale…
MDL … e alla tradizione dell’Encyclopédie, dove il ragionamento sistemico sul mondo permette di costruire un quadro di riferimento per tecniche e sapere, linguaggio e funzione.
LB I processi di creazione del valore partono da lontano…che speranze vedi per l’Italia, oggi, in questo senso?
MDL Credo sia un momento di grande opportunità per il nostro paese. Vedo il tentativo di costruire un sistema condiviso che riesca a fare dialogare tra loro le molte individualità. È un percorso pericoloso e difficile, ma vi è la possibilità di arrivare a un sistema di democrazia diretta che, pur rinunciando alla competenza approfondita, cerca di arrivare alla condivisione di obiettivi. Nell’urgente ricerca di un comune denominatore si rinuncia alla competenza, perché troppo difficile da portare a galla, rispetto alla media delle richieste, ma ci si avvicina al progetto di lavorare positivamente sulle molte individualità per fare in modo che tutte possano coesistere; è un grande obiettivo.
La dialettica è importante. Cito l’esempio della ricerca degli entomologi sull’organizzazione dei formicai dove vi è la maggior parte di formiche operaie, una piccola parte è dedicata a procreare, un parte alla gestione dei magazzini, una alla sicurezza e le altre sono sabotatori. Questa parte critica è sana e mantiene in vita l’organismo, perché permette l’evoluzione imprevista, lo scarto laterale.
C’è bisogno sempre di uno sguardo non omologato. Non c’è virtù senza vizi.
LB Nel tuo lavoro hai fatto molte cose; che cosa ti affascina di più progettare edifici, allestimenti, oggetti oppure tutto è collegato come parte di un unico approccio?
MDL Quello che importa è la ricerca di un significato profondo. Sono un architetto e mi interessa realizzare cose per stare nel mondo. L’architettura per avere significato deve fare appello a messaggi profondi, che possano essere riconosciuti come comuni. Ho imparato molto lavorando per anni in Georgia (dal 2006 al 2013) dove dovevo essere in grado di interpretare la loro forte necessità di distinguersi dalla Russia e al contempo ero consapevole che l’architettura, con il suo significato, può diventare un ponte di pace.
In fondo è sempre lo stesso discorso: vogliamo essere diversi, unici ed essere riconosciuti come tali.
Accade anche a me con mio fratello gemello. Dopo anni la barba che mi contraddistingue diventa un modo per affermare la mia differenza da lui. Sono le differenze che costruiscono il “senso” e il forte riferimento simbolico è necessario per creare identità. A Milano, in Piazza Gae Aulenti, con un progetto recente, ho scelto la forma simbolica di un seme che germoglia, una metafora, perché fosse in grado di trasmettere un racconto comprensibile a tutti… Ettore lavorava per metafore appunto.
In definitiva gli devo molto. Nell’ 88 mi ha ceduto la sua direzione artistica per il design della Olivetti e questo mi ha permesso di avere un interlocutore di grande respiro. In Olivetti il designer era l’“Architetto”. L’Olivetti per me è stata tutto; ho potuto realizzare uffici, allestimenti, prodotti, packaging e allacciare rapporti con importanti futuri committenti.