Giancarlo Mazzanti

Realizzare progetti che abbiano la capacità di accogliere anche quello che noi non ci possiamo immaginare per il futuro: Luca Molinari intervista Giancarlo Mazzanti, architetto colombiano che ha messo i valori sociali al centro dei suoi lavori.

L: Una volta mi hai detto una cosa che mi è piaciuta molto: hai detto che la casa non è funzionale ma è collegata ai nostri riti e ai nostri modi di abitarla. E ogni spazio che progetti per le comunità parte da una idea di ritualità. Non tanto da una dimensione strettamente funzionale che una specie di eredità del ventesimo secolo che ci lasciamo lasciando un po’ alle spalle ma da un senso della vita comune che dobbiamo recuperare.

G: Io veramente sono un critico dell’idea della funzionalità e dell’efficacia come l’unica maniera di pensare un progetto. Continuiamo a sviluppare un progetto da un diagramma funzionale, quasi tutti, ed è per questo che a me interessano alcune strategie per sviluppare un progetto come il gioco e l’anomalia. La casa rimane lo spazio per i riti familiari. C’è anche una critica a quelle idee che abbiamo un po’ perso, ovvero dell’abitazione come teatro nella vita. Parliamo, facciamo le cose, siamo diventati troppo strumentali. La vita è diventata uno strumento per tutto. Facciamo “questo” per arrivare a “questa cosa”. In quel senso vorrei ritrovare l’idea di una vita molto più teatrale, delle buone maniere e di altre cose che penso ci renderanno più felici.

L: Il tuo lavoro da sempre scardina l’idea di forma/funzione, portando questa tema verso la relazione tra forma/piacere, forma/comunità, forma/ regole condivise, forma /corpo fisicità. Questo è molto interessante perché la grande critica che noi possiamo fare al secolo passato è che ci ha lasciato una serie di spazi che sono invecchiati subito perché erano legati a una funzione che una volta finita rendeva lo spazio completamente inutilizzabile. Forse la grande critica al 900 da fare è che gli spazi che non erano flessibili come gli spazi costruiti prima. Tant’è che oggi noi ci confrontiamo con il tema della rigenerazione perché ci dobbiamo ripensare dei luoghi che sono invecchiati velocemente. Allora forse il tema dei riti, del gioco, del piacere, del benessere, diventa un nuovo modo di pensare i luoghi che abiteremo nei prossimi anni.

G: l’architettura è uno strumento di controllo. Noi cominciamo chiedendoci sempre che cosa volevamo propiziare con il progetto. Vogliamo sempre un po’aprire il discorso in cui l’architettura non è propriamente quest’idea di funzionalità. Siamo interessati quando entriamo nella mentalità di un progetto come l’Ospedale di Santa Fe dove mettiamo un giardino, un gioco per ballare, altre cose che possano aprire questo tipo di riflessione e prospettiva. C’è un bel testo di Fujimoto in cui parla del nido e della caverna. Il nido è fatto soltanto per una cosa e allora può avere solo un uso e poi si deve lasciare indietro. Che è un po’ la condizione dell’architettura moderna, che è fatta soltanto per una funzione. Poi c’è anche la caverna che la puoi usare come vuoi: puoi dormire, puoi camminare, ci puoi fare un sacco di cose. Però questo mi fa arrivare a un punto che a me interessa molto che può anche essere parte anche della mia educazione. Che è quella degli anni 80’ intorno al concetto della tipologia. Alla fine io continuo a lavorare con l’idea di un tipo che può avere la capacità di accogliere i cambiamenti che verranno dei prossimi anni, utilizzando sistemi di moduli flessibili.
Quando pensiamo di lavorare con i moduli, cominciamo con due perché abbiamo i soldi solo per farne due così da rispettare economie anche molto limitate. Allora possiamo pensare a un sistema fatto di moduli che possano cambiare nel tempo e che possano crescere. Per il progetto di Roma, che per me è stato uno dei lavori più interessanti che ho fatto negli ultimi anni, abbiamo lavorato moltissimo con una tipologia modulare. E prima di pensare che un progetto è finito si pensa che è anche un tipo di progetto incompiuto che gli altri possono continuare. Questo è interessante, ci piace molto, quando si fa una università deve farsi intorno a trent’anni, le condizioni cambiano, questa della pandemia ha cambiato tutto, anche soprattutto la maniera in cui facciamo insegnamento, apprendimento tutte queste cose. Allora quando si pensa a un’architettura che possa cambiare e che tu come autore hai finito il tuo lavoro, gli altri lo possono anche cambiare, mettere un modulo diverso, farne anche una disposizione diversa dell’architettura. È un’architettura che può essere adattabile nel tempo. Io ogni volta penso sempre a questi progetti non solo come progettazione ma nell’ottica che siano quasi un’autobiografia. A noi interessa un’architettura che potrei definire quasi “sporca”, ovvero che gli altri possano anche cambiare, usare e trasformare in un fase inattesa e futura sapendosi adattare ai cambiamenti.

L: Il progetto che tu citi che è un concorso per un campus biomedico internazionale a cui tu hai partecipato a Roma in cui tu avevi progettato un sistema diverso rispetto alle altre proposte di elementi modulari che organicamente si combinavano e ogni elemento ha un’autonomia in sé. La cosa interessante è che hai studiato un sistema aperto, che giustamente come dici tu, io inizio a fare un progetto e poi questo progetto può cambiare nel tempo perché cambiano le condizioni, cambia la società, cambiano le necessità e oggi una delle grandi cose importanti dell’architettura sia quello pensare a progetti che abbiano la capacità di accogliere anche quello che noi non ci possiamo immaginare per il futuro.

G: C’è una cosa che mi interessa molto. Un’architettura che dovrebbe essere neutra, che non dobbiamo fare più cose delle cose che sia ha bisogno. È un’architettura che non deve fare più cose, soprattutto pensandola nella crisi del cambiamento climatico in cui stiamo parlando, un’architettura che dovrebbe essere essenziale, un’architettura che non ha cose in più, non ha bisogno di fare cose di più. Un’architettura che si potrebbe dire senza gesti, senza condizione. Però il gesto non come un problema di forma ma anche di funzione.

L: Tu fai delle architetture che sono formalmente molto riconoscibili, con delle geometrie molto chiare che vengono combinate con quella capacità che avevano gli architetti barocchi di usare le geometrie in maniera molto sofisticata. Sono architetture con una fortissima personalità. Io ricordo la prima volta che ho visto una tua architettura che era la “Biblioteca America ” di Medellin, e ti assicuro che ero rimasto molto colpito dalla capacità formale e materica. Le tue architetture sono anche architetture che non passano inosservate.

G: Sì ma le facciate non sono mai composte, non sono mai fatte da un punto e una linea. La facciata non è un punto di discussione dei nostri progetti, come se fosse un problema di composizione. Perché gli stessi progetti sono più vicini a quest’idea di disposizione, disporre i pezzi su un territorio e non tanto di comporre o disegnare una sorta di oggetto architettonico. Siamo più vicini a quest’idea che c’è di neutralità. Poi adesso sono molto più impegnato in un’architettura molto più neutra, che non ha bisogno di fare più cose. In questo senso sono più interessato a cultura e a una società della decrescita. Quando parliamo di decrescita e la mettiamo nell’architettura, è un po’ questo. Un’architettura che non ha bisogno di più, che è molto chiara. Non è un problema di etica che dovrebbe dire la verità perché alla fine non sapremo mai quale sia la verità. Neanche la postmodernità in cui la facciata tende ad avere un significato che nessuno può leggere. È soltanto una facciata che ha la capacità di essere trasparente o opaca, come nell’ospedale di Santa Fe dove abbiamo voluto fare un ospedale aperto alla città e gli abbiamo messo una facciata che sembra il velo di una donna araba.

L: l’altra grande parola centrale nel tuo lavoro che è la “comunità”. Tutti i tuoi lavori sono fortemente segnati dal rapporto fra progetto e comunità. Scuole, giardini, biblioteche, mostre tutto quello che fai in qualche modo è strettamente collegato all’idea di una comunità che chiede degli spazi in cui stare bene, chiede di relazionarsi in ogni momento del giorno e della notte, in ogni momento del tempo. Uno spazio capace di accogliere comunità molto fluide, molto diverse fra loro aseconda dei diversi momenti della giornata e stagioni. Tu in rapporto a questo tema hai costruito alcune delle tue opere più rilevanti, tutta una serie di scuole, le biblioteche, i parchi e in questo hai segnato decisamente una qualità di vita in Colombia ma in tutto Sud America e questa è una delle cose che ti ha fatto riconoscere a livello internazionale al di là del luogo in cui l’hai fatto.

G: Alla fine è l’obiettivo principale dell’architettura che facciamo. Come l’architettura ti cambia la vita, non siamo quelli che ti dicono cosa dovresti fare però l’opera che si apre, che può cambiare, è pensata anche come un’architettura della cura. Io sono molto interessato all’architettura della cura, del prendersi cura. Questa idea dell’architettura che ti cura, che ti accoglie trasforma la città. Ci siamo dimenticati che la città non è una condizione soltanto funzionale. Poi emerge anche l’interesse per le cose comuni: “che cos’è la comunità?” la comunità non è una cosa generale, la comunità è fatta di pezzi, di differenze e allora si possono mettere queste condizioni diverse per avere una vita fra le persone molto diverse che non è pensare che siamo una comunità ma è una cosa molto più astratta.

L: Passiamo dalla città prescrittiva alla città accogliente fondamentalmente. È poi c’è l’idea di comunità, di cui già Aldo van Eyckparlava negli anni Sessanta, che non è unicamenteun luogo astratto la comunità è formata da corpi da persone da desideri da fisicità dal toccarsi dal stare insieme, è una dimensione estremamente fisica e concreta che in qualche modo entra in contatto con l’architettura e mette in condizione che anche i nostri corpi condizionano e cambiano l’architettura. C’è un corrompersi insieme, un toccarsi insieme, un modificarsi insieme del corpo dell’architettura.

G: Anche la definizione stessa di spazio è cambiata perché noi abbiamo imparato una sua definizione molto moderna, che dipende da una condizione astratta. Se cambiamo un po’ la maniera in cui si può arrivare all’idea di spazio sicuramente possiamo creare un’ambiente fatto di agenti diversi, dove le persone, gli animali, le cose sono spazio, trasformandolo in una condizione che non è più astratta perchè generata da tanti attori differenti. Questo cambio totalmente l’dea che lo spazio è vuoto come se fosse un oggetto fatto per essere guardato, un po’ quest’idea di oggettualità molto moderna e poi che cambia per un’architettura molto più performativa più vicina all’arte contemporanea in cui non è fatta solo da un oggetto ma anche da un utente, delle condizioni climatiche, più cose che cambiano le condizioni.

L: Il tema di fondo di questo numero di Platform è “touch”, toccare. La tattilità si sovrappone molto bene al tuo lavoro perché è un lavoro fortemente tattile, fisico, sensuale, sensoriale, in cui la relazione fra la materia, l’ambiente il clima, le persone, racconta di tutto questo. Cosa vuol dire per te pensare a un’architettura che sia fortemente sensoriale?

G: In una società che è sovra informata e dove tutto è digitale si sta perdendo la capacità di toccare gli oggetti. Perché gli oggetti stanno sparendo. Non è che stanno sparendo perché ci sono un sacco di oggetti che escono tutto il tempo, scadono ogni tanto ma abbiamo perso le condizioni. Le fotografie. Le antiche fotografie tu le mettevi sul tavolo, c’era un oggetto da toccare, da sentire. Adesso abbiamo nell’Iphone quattrocento fotografie che non sono oggetti, non hanno un rapporto con la vita fisica. L’oggetto è una cosa da toccare.
La cura è una condizione tattile dell’essere accogliente. Un’architettura delle cose, che si possa toccare in questo caso.

L: In questo quindi l’architettura ha una responsabilità enorme. In qualche modo aiutarci a riprendere contatto fisico con le cose, non trovi?

G: Sì, in questi giorni la gente pensa si potrebbe fare un’educazione digitale, sono sicuro si possano prendere informazioni, imparare cose, ma quello molto più importante dentro l’educazione è quella condizione umana di toccarsi, di farsi degli amici, di avere il tempo per parlare. In questi giorni dicevo una cosa al mio studio, perché non vado in studio a Bogotà, continuo a lavorare in casa e dicevo. Io sono molto più efficace lavorando a casa ma a me manca lo studio per parlare. Per parlare di architettura, per parlare della vita, per avere tempo di discutere un progetto insieme è più cooperativo.

Testo di Luca Molinari

 

Didascalie e crediti fotografici (dall’alto in basso)

– Giancarlo Mazzanti by Juan Pablo Gutiérrez
– Marinilla Educational Park, Colombia
– Spain Library in Medellín, Colombia
– Bio-medical Campus, Rome University, Italy
– Ciudadela 29 de Julio Park, Santa Marta, Colombia
– The wall from static to elastic, Triennale Milano, Italy
– Axonometry – La Ilusión School, Medellín, Colombia
– La Ilusión School, Medellín, Colombia

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