Cino Zucchi

Dialogare con Cino Zucchi, uno degli architetti più completi e maturi dell’architettura europea contemporanea, vuole dire confrontarsi sul ruolo della ricerca come strumento di indagine poetica e critica sul tempo presente e le sue inquietudini senza cadere in facili retoriche, ma puntando al cuore delle questioni centrali per un ripensamento sul ruolo del progetto per il prossimo futuro.

L.M.
Viviamo un tempo in cui è necessario tornare a riflettere sul progetto come forma di ricerca. La realtà ci pone delle domande molto pressanti: energetiche, ambientali, di cambiamento climatico, di scompenso sociale, di differenze che stanno aumentando. L’architettura in qualche modo è chiamata a far parte di questo mondo che sta cambiando. Credo che tornare a un’idea di progetto come forma di ricerca consapevole, critica e anche di riflessione sugli strumenti propri dell’architettura sia importante. Cosa vuol dire per te il progetto come forma di ricerca? E quanto è necessario oggi?

C.Z.
Apri con una questione difficile. Nella storia di ogni pratica artistica possiamo vedere il succedersi ciclico di momenti in cui la disciplina cerca se stessa all’interno dei propri dispositivi di azione – quella che negli anni Sessanta Aldo Rossi avrebbe chiamato ‘autonomia disciplinare’ – e i momenti in cui insoddisfatta delle proprie regole si guarda intorno per cercare freschezza e verità in campi del tutto eteronomi. Questo sguardo ampio è un dato del tutto positivo, anche se credo che gli architetti siano tra i più grandi banalizzatori di termini presi dalle scienze e dalla filosofia. Nel secolo scorso moderno lo hanno fatto con il concetto di spazio-tempo e la teoria della relatività, ma oggi le fonti sono altre. L’emergenza ambientale, i gender studies, le disuguaglianze sociali e i progressi dell’intelligenza artificiale sono al centro delle nostre riflessioni. Il nodo è tuttavia come – al di là dei proclami che affollano i padiglioni delle Biennali – queste preoccupazioni possano generare azioni concrete nel nostro lavoro. Gli accenti ‘messianici’ del Le Corbusier di Architecture ou révolution riecheggiano sbiaditi negli interventi televisivi degli odierni guru architettonici, necessari al sistema dei media come sono necessari lo chef crudele, l’ambientalista scalzo, il gay in trucco e paillettes, il rapper tatuato. Nella nostra disciplina il formalismo di matrice accademica scade presto nel ridicolo, ma esiste anche un pari e complementare ridicolo dell’architetto che pretende di poter salvare il globo.

Pur essendo nella seconda fase della mia età professionale – un’età che spinge facilmente a compromessi e ipocrisie – mi considero un ‘ambientalista della prima ora’: nel lontano 1975 avevo letto la ricerca dell’M.I.T. The Limits to Growth – il primo vero allarme sull’emergenza ambientale – e fortemente impressionato da essa ho fatto domanda di iscrizione allo stesso. Ho trovato di recente i miei appunti di un laboratorio progettuale del 1977 che parlava di user needs e criticava le tipologie abitative standard sottoponendole a verifiche spietate con utenti virtuali – una coppia di lesbiche, un guardiano notturno – che non rientravano nella ‘famiglia felice’ del sogno americano.

Una volta tornato in Italia, il pendolo della mia curiosità intellettuale ha raggiunto il culmine opposto, e mi sono dedicato allo studio della trattatistica architettonica del cinque-seicento e del suo rapporto con la costruzione quotidiana della città. L’esito di questo lavoro di ricerca ha prodotto nel 1989 un libro ‘erudito’ sull’architettura dei cortili milanesi di quel periodo. Il suo rigore filologico ha conquistato il rispetto degli storici, ma riguardandolo all’indietro lo leggerei come un segno precoce del mio interesse del rapporto tra cultura high brow e low brow, tra le sofisticazioni estreme della speculazione astratta e i motivi che da questa si diffondono – attraverso quello che Dan Sperber chiamava “il contagio delle idee” – nella prassi edilizia di tutti i giorni. Ricerca scientifica e cultura umanistica, ambedue esplorate con grande impegno, hanno generato in me una sorta di scudo contro chi usa il sapere o i suoi simulacri come armi improprie. La vera ricerca si muove con rigore ma senza alcuna certezza, guarda alle procedure come strumenti e non come fini, ed è sempre pronta a rivedere i propri presupposti. La pura raccolta di dati non è in ogni caso capace di generare una formula o una teoria. Essa ha bisogno di un vero e proprio atto di invenzione non contenuta in essi – un ‘tirare a indovinare’ intelligente e colto – poi subito verificato con i dati sperimentali e modificato da essi. Charles S. Peirce chiama questo processo ‘abduction’, e per spiegarlo ricorre perfino al The Murders in the Rue Morgue di Edgar Allan Poe. Ogni ricerca ha bisogno di passi falsi, di correzioni, di repentini cambi di rotta. La frase di Johann Heinrich Füssli “in arte, molte cose belle si trovano per caso, ma si conservano per scelta” anticipa le tesi di Jacques Monod de Le Hasard et la Nécessité: Essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne: la mutazione e l’innovazione avvengono per caso, e si consolidano nell’organismo solo se compatibili con la sua struttura. Questo avviene talvolta attraverso quel meccanismo che Stephen J. Gould nel suo The Panda’s Thumb: More Reflections in Natural History chiama exaptation, cioè l’uso di un organo o attributo per un ruolo diverso da quello originario; quante volte questo succede in architettura!

Cambierei quindi il famoso aforisma modernista “la forma segue la funzione” in qualcosa come “la forma abbraccia la funzione”; la ospita, la coccola, talvolta la esalta, ma non è meccanicamente derivata da essa.

Nella condizione attuale ossessionata dalla procedura e dalla certificazione di prodotto, ci vengono spesso chieste performatività e certezze premature. Il cliente vuole essere rassicurato da una flow-chart lineare e il mercato genera ogni giorno nuove figure professionali che si occupano di validare un segmento specifico della lunga catena DNA che costituisce il progetto. Il concetto di correttezza procedurale ha sostituito il giudizio di valore sul risultato finale. Si crede ormai che un processo seguito con diligenza porti necessariamente a un buon risultato, ma spesso quest’ultimo mostra solo una ‘mediocrità garantita’. A parte qualche sporadico caso di mecenatismo illuminato – ricordo ancora la mostra delle ricerche commissionate da Prada a Rem Koolhaas e Herzog&De Meuron – la finanza internazionale tende a prediligere progetti ‘easy listening’, prodotti professionali ottenuti attraverso percorsi dati capaci di garantire il consenso.

L.M.
Questo concetto per me è centrale. C’è in questo momento una specie di schizofrenia tra una tecnocrazia performante e anche obbligante, perché di fatto ormai l’architetto si trova quasi a combinare materiali precucinati e predisposti dall’industria, viene quasi chiamato a combinare frammenti. Dall’altra parte c’è l’idea dell’architetto inteso come autore, io ti considero un autore. Questo tema sta diventando sempre più complicato, sempre più difficile. Cosa vuol dire lavorare su questo equilibrio che si fa sempre più stretto?

C.Z.
Provo subito a correggere il concetto comune di ‘autore’ con una frase Massimo Bontempelli: “L’ideale supremo di tutti gli artisti dovrebbe essere: diventare anonimi. Il compito fondamentale del poeta è inventare miti, favole, storie, che poi si allontanino da lui fino a perdere ogni legame con la sua persona, e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini, e quasi cose della natura. Tali diventano le opere dell’architettura; spesso ignoriamo l’autore dei monumenti più illustri, che con la maggiore naturalezza si sono fusi col loro suolo e il loro clima.”

Questa idea della ‘sparizione’ dell’autore a favore dell’opera è presente in grandi autori come Giacomo Leopardi, Arthur Schopenhauer e il mio adorato Gustave Flaubert, che scriveva: “L’autore nella sua opera deve essere come Dio nell’universo, presente ovunque e ovunque invisibile” e “I capolavori son bêtes. Hanno un’espressione tranquilla come le produzioni della natura stessa, come i grandi animali e le montagne.”

Ci sono in ogni caso due generi di autori o autrici, diversi nell’atteggiamento ma egualmente bravi/e. I primi aprono un filone tematico limitando la loro ricerca in un perimetro piuttosto definito con motivi lessicali e sintattici che rimbalzano di opera in opera. L’atteggiamento o il modo di procedere dei secondi esiste, ma è più difficile da identificare in uno ‘stile’ o in costanti linguistiche proprie all’autore stesso. In essi, il linguaggio della singola opera è reinventato di volta in volta in relazione al suo contenuto specifico, e spesso i loro lavori non mostrano assonanze formali. Anche essi sono autori, ma nell’opera è meno riconoscibile la loro ‘firma’, ed è più difficile copiarne i modi o farne una parodia.

Al primo genere potrebbero essere ascritti Federico Fellini nel cinema, Joan Baez nella musica, Richard Meier o Daniel Libeskind nell’architettura. Tra i secondi collocherei Stanley Kubrick – che ha diretto storie così diverse come 2001 Odissea nello Spazio, Arancia Meccanica, Shining, Full Metal Jacket, Lolita o Barry Lindon – in quest’ultimo usa solo luce naturale e candele – adattando di volta in volta montaggio o fotografia al soggetto; o i Beatles del doppio album bianco, dove non si trova una canzone dall’arrangiamento uguale all’altro, spaziando dalle tecniche dell’avanguardia elettronica al country alla psichedelia. In questo secondo gruppo, dopo Karl Friedrich Schinkel, metterei Franco Albini in Italia – con progetti eteronomi come il rustico rifugio Pirovano a Cervinia, la Rinascente di Roma, gli uffici SNAM a San Donato con i loro carter in fibra di vetro arancione o i meravigliosi tholos in cemento armato del Tesoro di San Lorenzo a Genova -, il cinico e talentuoso Philip Johnson, Rafael Moneo e oggi Herzog & de Meuron. I loro progetti mi stupiscono per intelligenza, mancanza di soluzioni preordinate e capacità di interpretare il tema specifico attraverso invenzioni e linguaggi sempre diversi.

Continuando nelle mie metafore musicali, se un architetto del secolo scorso potrebbe essere paragonato a un compositore, oggi il suo lavoro assomiglia piuttosto a quello di un dee-jay. Il ‘grado zero’, l’elementarismo e l’astrazione di Piet Mondrian o Hannes Meyer sono uno dei caratteri salienti del secolo scorso; ma dopo Andy Warhol, la manipolazione di immagini o il campionamento dei suoni può produrre opere originali e spesso molto distanti dalle loro fonti.

Alla luce di quello detto prima, mi prendo la libertà di chiamare ‘interpretazione’ quello che tu hai definito come ‘autorialità’: essa pone l’accento non tanto sull’espressione della soggettività dell’autore, quanto sulla sua capacità di osservare, filtrare e disporre i dati del problema, trovando in essi un ‘tema’ specifico che crei coesione tra le diverse parti dell’opera. Nell’epidemia lessicale causata oggi dai media troviamo l’abuso dell’aggettivo ‘iconico’, visto come attributo necessario al consenso e alla comunicazione di un oggetto sia esso un rossetto, un’auto o un’architettura. Credo tuttavia che l’evidenza e chiarezza formale che una buona architettura può o dovrebbe avere debba scaturire da una struttura più profonda che si riveli in alcuni punti più di altri.

La ‘tecnocrazia’ di cui tu parli si accoppia oggi con l’ossessione per i protocolli e le certificazioni spesso usate come medaglie: ISO 9001, LEED, BREEAM, NZEB, WELL, ogni giorno qualcuno ne inventa una nuova. Temi importanti come l’ambiente, l’impegno sociale o il benessere della persona, da valori fondanti il progetto, diventano le ‘ticking boxes’ di un programma finanziario e commerciale che deve includerli in forma asseverata e comunicabile. Sull’altro lato esiste un simmetrico feticismo per la tecnologia – o meglio per le sue figure e i suoi emblemi – che spesso è vista come un elemento che cancella il sospetto di arbitrio e soggettività nelle forme architettoniche. L’esibizione del dettaglio hi-tech dona sicurezza e prestigio all’opera, generando una specie di apprezzamento automatico quanto superficiale; i ragnetti metallici reggivetro inventati da Peter Rice per le serre della Villette sono ormai diventati un dispositivo a effetto calcolato, una sorta di ‘reggicalze dell’architettura’.

Nel mio lavoro quotidiano uso frammenti di tecniche scientifiche o di conoscenze storiche assemblandoli tuttavia in maniera ‘artistica’, cioè come semplici strumenti per raggiungere il risultato sperato. Non riconosco quindi ad alcuna tecnica, procedura o conoscenza posseduta da me o da altri un valore in sé, ma le valuto criticamente rispetto all’obiettivo. Non si uccide una zanzara con un bazooka, né si sega un tubo di acciaio con un coltello di plastica: ogni problema ha un suo strumento adatto e non viceversa.

L.M.
Anche se però, in questo caso, malgrado tutti i filtri, il ruolo della visione, del pensiero formale, deve avere una capacità inclusiva, generosa e capace di sostenere le tensioni del dialogo e del confronto al punto da resistere e arrivare poi a essere forma finita e costruita. Forse la forza del pensiero d’architettura è nella sua capacità di essere riconoscibile e inclusiva, malgrado la sua forza della dimensione formale. Questo è abbastanza inevitabile, perché sennò avremmo solo delle gran scatole.

C.Z.
Uno dei temi più difficili dell’era contemporanea è quello dell’espressione o rappresentazione di concetti – individuali o collettivi che siano – al di fuori di un ‘contratto sociale’ che stabilisca un nesso condiviso tra forme e idee. La famosa Icononogia ovvero Descrittione d’Imagini delle Virtù, Vitii, Affetti, Passioni Humane, Corpi Celesti, Mondo e sue parti, Opera di Cesare Ripa Perugino, Fatica necessaria ad Oratori, Predicatori, Poeti, Formatori d’Emblemi et d’Imprese, Scultori, Pittori, Dissegnatori, Rappresentatori, Architetti et Divisatori d’Apparati per figurare con i suoi proprii simboli tutto quello che può cadere in pensiero humano non serviva ad altro che a mettere d’accordo le persone sul significato delle figure e delle rappresentazioni. Oggi questa condivisione non sembra più possibile, e l’abbiamo sostituita con l’orribile termine di ‘concept’.

Qualche anno fa mi è capitato di progettare una chiesa, uno dei temi più difficili che si presenta agli architetti proprio per la questione suddetta. Alcuni architetti cercano di rappresentare direttamente il presunto carattere ultraterreno del tema; il risultato è spesso quello che Gio Ponti chiamava “le chiese Pinocchio”, dove l’espressionismo strutturale vorrebbe indicare con la sua cuspide “io vengo direttamente da lassù”. Altri invece accettano la chiesa come prodotto umano dedicato a Dio, una sorta di ‘granaio ben costruito e decorato’ come la Porziuncola o Sant’Ambrogio a Milano. Gli edifici di culto sono uno dei prodotti più interessanti della cultura umana, che nella storia ha provato tante forme fino a stabilizzarne alcune. Non esiste quindi una vera architettura ‘rivelata’ o capace in assoluto di interpretare l’essenza di una religione, ma una serie di ipotesi diverse nel tempo e nello spazio che vengono selezionate e raffinate dal consenso sociale. Hagía Sofía a Istambul ci appare oggi l’icona della moschea e tuttavia nasce come chiesa; l’architettura delle sinagoghe non ha un modello unitario, ma varia in rapporto ai luoghi storici della diaspora ebraica.

Il testo di Henri Focillon Vie des formes parla del rapporto continuamente mutevole tra forme e concetti, tra segni e contenuti: “Si può concepire l’iconografia in diversi modi, sia come variazione di forme sullo stesso senso, sia come variazione di sensi sulla stessa forma. L’un metodo e l’altro pongono ugualmente in luce la rispettiva indipendenza dei due termini. Talvolta la forma esercita una specie di magnetismo su sensi diversi, o piuttosto si presenta come una specie di stampo cavo, dove l’uomo versa a volte materie differentissime, le quali si sottomettono alla curva che le preme, e così acquistano un significato inatteso. Talvolta l’ossessiva fissità d’un medesimo senso s’impadronisce di esperienze formali che non ha necessariamente provocato.”

Le parole e le forme assumono un significato solo nelle circostanze concrete del loro uso. Un progetto contemporaneo deve rinegoziare ogni volta le forme proposte rispetto al gusto soggettivo degli attori del processo – dal committente alla commissione del paesaggio alle soprintendenze – ma tenta ancora di accogliere un sentimento collettivo che le faccia sue, le riempia di senso, le ritenga adatte a rappresentare i valori che uniscono le persone. Quando ciò succede, è per me una vera gioia, che mi consola e rende forte nei momenti più difficili del nostro lavoro.

L.M.
Io penso sempre che una buona architettura sopravviva alla sua funzione iniziale. Anzi, è nella capacità che ha l’architettura di essere forma generosa, di potersi adattare a funzioni e a situazioni che non avrebbe neanche pensato di accogliere in quel momento. Questo è forse uno dei grandi limiti dell’architettura del Novecento, che è stata pensata in maniera così rigidamente monofunzionale da non essere generosa abbastanza da accogliere i cambiamenti.

C.Z.
Sono del tutto concorde con te. Dice Adolf Behne nel suo Der moderne Zweckbau del 1923: “Mentre il funzionalista cerca il massimo possibile adeguamento a un fine il più possibile specifico, il razionalista cerca l’adattamento al più grande numero di possibilità. Niente di più comprensibile che il razionalista metta particolare enfasi sulla forma. L’uomo solitario, isolato nel mezzo della natura, non ha alcun problema formale. La questione della forma nasce con l’unione di più individui, e la forma è ciò che rende possibile la convivenza tra gli uomini.”

La forma architettonica non può sopravvivere come atto individuale, ma deve a un certo punto essere confermata dal ‘contratto sociale’ di cui parlava Hobbes. Un’architettura deve mettere d’accordo più persone. Questo non vuol dire che debba essere basata solo su un exit poll, come accade oggi con il dibattito sui grattacieli a Milano o in altre città europee. Sui quotidiani e sui blog si leggono giudizi individuali del tutto contradditori. Possediamo oggi un canone condiviso o quelle espresse sono soltanto micro-estetiche di molti ‘lobbies del gusto’ in perenne lotta tra di loro? L’architettura soffre molto di questa instabilità e mancanza di criteri estetici comuni. Oggi un artista visivo può produrre un’opera attraverso un suo gesto del tutto arbitrario, poiché il suo successo sarà poi determinato dal mercato, a sua volta diviso in molti gruppi che si ignorano o snobbano reciprocamente. Un architetto non possiede i mezzi per costruire quello che ha concepito, e quindi per vedere il frutto finale del suo lavoro nelle tre dimensioni deve per forze fare i conti con il quadro economico e le aspettative sociali.  Non so ancora se l’architettura sia un’arte, ma in caso affermativo è certamente più lenta, pesante, e costosa di molte sue muse sorelle.

L.M.
Oggi manchiamo, a volte, di condivisione sulle parole. E quindi, non condividendo le stesse parole, abbiamo un problema poi a definire le forme dei progetti e la loro condivisione sociale. Su questo la confusione è massima in questo momento. Tu hai esordito dicendo “io sono un ambientalista di formazione primaria”. Tu sei partito dalle fonti che hanno ragionato a partire dagli anni Sessanta sulla crisi della modernità come forma di consumo del nostro pianeta. E quindi la tua dimensione di riflessione sull’energia è molto più larga, più tonda, non trasforma l’ecologia in un linguaggio, ma trasforma l’ecologia in un pensiero che informa il progetto. Ci vuoi spiegare meglio il tuo pensiero su questo tema, che è di una grande delicatezza sociale oltre che simbolica?

C.Z.
Vorrei innanzitutto distinguere tra due dimensioni complementari spesso confuse tra loro: quella dell’etica individuale sul tema – che do per scontata, essa fa parte dei valori di questo secolo – e quella dell’efficacia reale dell’azione collettiva, che agisce a scale del tutto diverse. Comprando una borsa Freitag riciclata o usando una bottiglia in metallo dimostriamo il nostro impegno, ma non stiamo certo salvando il globo. Le uniche azioni capaci di ridurre davvero le emissioni globali di gas serra sarebbero quelle di non fare più figli, di ridurre drasticamente i viaggi in aereo, di limitare la specializzazione produttiva del mondo e quindi il commercio globale, e forse quella di ‘impedire’ a India e Cina di raggiungere il nostro standard economico. Queste cose avrebbero bisogno di un governo mondiale – quasi alla Star Wars – e di una limitazione delle libertà individuali incompatibile con i nostri valori.

La mia educazione scientifica spesso rabbrividisce nell’ascoltare le innumerevoli falsificazioni sul tema di una presunta ‘architettura ecologica’ che tuttavia funzionano benissimo dal punto di vista della comunicazione. Nonostante la nostra ricerca progettuale sia costantemente impegnata nel ‘responsive building’ e nell’uso di fonti di energia rinnovabile – gli headquarters Salewa a Bolzano e Lavazza a Torino garantiscono un’altissima qualità ambientale con consumi energetici davvero bassi – credo ancora che uno dei fattori principali sia quello della durabilità nel tempo degli edifici. Gran parte dell’energia viene spesa nella costruzione, e quindi questo ‘investimento iniziale’ – la cosiddetta ‘embedded energy’ – deve essere ammortizzato in un tempo possibilmente lungo. Se consideriamo il fattore solidità e durata nelle costruzioni attuali, le loro pareti ventilate, i cartongessi e le sigillature al silicone non reggono davvero il paragone con la villa Necchi di Piero Portaluppi e i suoi meravigliosi gradini ellittici in conci di pietra; a conti fatti, la città otto-novecentesca rivela una dimensione ecologica spesso trascurata, e il suo riuso è un atto importante per l’ambiente.

L.M.
Che rapporto hai con quello che oggi chiamiamo l’intelligenza artificiale, come ti ci rapporti, la vivi e la senti rispetto al tuo lavoro di architetto?

C.Z.
Nei miei anni all’ M.I.T. avevo seguito un corso di intelligenza artificiale e imparato a programmare in LISP, che a suo tempo era considerato una specie di ‘lingua divina’ perché sembrava infrangere il secondo teorema di Gödel. Sono sempre stato interessato alle ricerche e al pensiero di Douglas Hofstadter, che è stato forse il primo ad occuparsi del tema del significato e della comprensione in condizioni di ambiguità semantica. Le sue macchine intelligenti ‘bottom up’, alle quali assegnava problemi che richiedevano la comprensione di quello che potremmo chiamare ‘stile’ – un termine complesso che non definisce un oggetto quanto una serie di relazioni – sono in un certo senso le progenitrici di programmi attuali come Dall-E, Stable Diffusion o Midjourney.

Non ho ancora avuto il tempo per giocare con essi, ma seguo su Instagram artisti o architetti come Neptuneglitterball o Matias del Campo le cui sperimentazioni trovo molto sofisticate. Mentre però i primi sistemi di AI cercavano di imitare la struttura delle reti neuronali del nostro cervello, l’incredibile progresso di questi anni è relazionato al loro self-learning. In altre parole, oggi l’AI dona risposte perfette, ma non possiamo più ricostruire i suoi meccanismi interni; in un certo senso – ed è questo ciò che preoccupa gli esperti che hanno chiesto una moratoria nella ricerca – noi oggi ‘non sappiamo più cosa e come pensa’. Molti anni fa David Bowie aveva in un’intervista profeticamente definito Internet come “un’entità aliena, dotata di vita propria”, e lo stesso incominciamo a sentire dell’AI.

Tornando al nostro campo, c’è un bellissimo saggio di Douglas Hofstadter che si chiama Variations on a Theme as the Crux of Creativity che rappresenta in maniera perfetta il mio ‘metodo di lavoro’.  Egli sostiene che invece di cercare una nuova verità al di fuori di ogni struttura esistente, molte scoperte in campo artistico o scientifico sono ottenute inserendo una deviazione in un gioco noto – penso istantaneamente al clinamen che Lucrezio seguendo Epicuro vedeva come origine delle cose – e sviluppandone con rigore gli sviluppi inattesi.

Nel progettare, io ‘spengo’ momentaneamente la facoltà del gusto – il gusto non è capace di generare niente, sceglie soltanto – e lascio libero il pensiero di generare forme e spazi. Poi ‘riaccendo’ il gusto e verifico come queste forme libere rispondano alla funzione, alla costruzione, all’economia, alle convenzioni figurative della mia epoca. La mente libera produce forme inattese, il ‘gusto’ o il ragionamento ne sceglie alcune e le perfeziona. Ancora una volta, è un meccanismo ‘darwinista’ non così lontano da quello propugnato da Christopher Alexander nel suo Notes on the Synthesis of Form. In questo processo di invenzione e selezione velocemente alternati tra loro per avvicinarsi alla soluzione desiderata, i programmi di AI menzionati prima possono facilmente esperire il primo passaggio. Nei cosiddetti ‘prompt’ assegnati a Midjourney, noi potremmo chiedere “rifai Ladri di Biciclette come fosse diretto da Quentin Tarantino” oppure “disegna un’architettura alla Mies Van der Rohe con un marcato tono etnico-tribale” e poi selezionare i risultati fino al nostro gradimento.

L’intelligenza artificiale deve tuttavia ancora lasciare la scelta finale all’uomo. Il pericolo che vedo nelle giovani generazioni è la fiducia cieca e l’incapacità di verificare i risultati ottenuti dalla macchina. La tendenza sempre più forte a delegare a essa le decisioni – siano esse di natura tecnica, politica, etica o formale – sta fortemente limitando le capacità critiche delle persone. Molti giovani architetti tendono a non controllare più gli errori di un foglio Excel causati da una svista nell’immissione dei dati, e i giovani ingegneri che usano i programmi di calcolo statico a elementi finiti non hanno più alcun senso intuitivo di come le forze si dispongano nella struttura. Se l’architetto/a e l’ingegnere/a del futuro sarà solo colui o colei che saprà fare ‘le domande giuste’ alla macchina, dovrà anche conservare la capacità critica nei confronti dei risultati e ‘disinserire il pilota automatico’ quando necessario.

Il meccanismo ormai prevalente di continuo prelievo e metamorfosi di ‘meme’ figurativi o testuali per adattarli al nostro problema rende molti incapaci di verificare la verità e la correttezza delle fonti alle quali attingono, e quindi amplifica di molto la propagazione di errori contenuti nell’originale. Come professore, mi interessa capire le nuove modalità di insegnamento necessarie in questa ‘esternalizzazione del sapere nozionistico’ rappresentata da Internet e Wikipedia, peraltro da me usati quotidianamente nelle mie ricerche.

Non bisogna mai piangere sul passato, piuttosto capire cosa della nostra formazione e conoscenza sia più utile trasmettere alle generazioni più giovani. Spesso metto a loro disposizione un sapere antico e desueto – la differenza tra le modanature di una base ionica e una base attica, oppure i metodi di tracciamento del trompe del castello di Anet da parte di Philibert de l’Orme – ammantandolo di ironia e affetto. Qualcosa verrà perduto, qualcosa verrà conservato, qualcosa di meraviglioso e nuovo verrà inventato. La passione e l’onestà intellettuale sono cose che passano tra gli individui in maniera implicita piuttosto che esplicita, e questo succede anche al meraviglioso patrimonio di cultura materiale rappresentato dal territorio europeo, che ci entra nel sangue e nel cervello bevendo una cerveza, un pastis o un ouzo seduti ai bar delle sue magnifiche città.

Testo di Luca Molinari


Didascalie e crediti fotografici (dall’alto in basso)

– Copertina – Foto © Guido Stazzoni
– Ritratto di Cino Zucchi – Foto © Guido Stazzoni
– Ritratto di Roberto Malfatti
– Ritratto di Cino Zucchi
– Cino Zucchi DJ
– Architettura aumentata, installazione all’evento INTERNI per Mapei, 2021
– Edificio per uffici Ark a Bordeaux Euratlantique, 2017 – 2023
– Cascina Merlata a Milano, 2011 – 2021
– Cavallerizza Reale di Torino – Concorso internazionale, 1° premio, 2023 – in corso
– Sede Salewa a Bolzano – con Park Associati, 2007 – 2011
– Sede Lavazza a Torino, 2010 – 2018
– MIT, intelligenza artificiale di Cino Zucchi 1977
– Magazzino automatizzato Pedrali, Mornico al Serio (BG), 2014 – 2016

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