La fabbrica Fantoni, con il complesso dei suoi edifici rivestiti in lamiera blu, si staglia sul profilo delle montagne sullo sfondo, anch’esse di un insolito colore blu. Generalmente all’idea delle montagne si associa il colore verde della vegetazione o il bianco delle nevi, invece qui ci appaiono dello stesso colore della Fantoni. In questo modo la scelta del colore appare particolarmente appropriata: la dimensione dell’insediamento industriale non risulta invasiva e riesce a integrarsi con naturalezza nel territorio.
Questa sapienza non è dovuta al caso: la costruzione di tutti gli edifici è stata affidata nel corso del tempo all’architetto Gino Valle, che con la famiglia Fantoni ha stretto un sodalizio di collaborazione trentennale.
Sembra che la fedeltà sia una caratteristica di questa famiglia, giunta oggi alla sua quinta generazione d’ininterrotta guida dell’impresa. A partire dalla falegnameria dell’Ottocento, grazie all’intuizione del nonno di Paolo, Giovanni Fantoni, s’iniziarono lunghe collaborazioni con artisti e poi art director, architetti esterni che accompagnarono il percorso dell’azienda. Tra i primi a collaborare come inserzionisti con Domus negli anni ’20, alla produzione di arredi per le Triennali degli anni ’30 con Cesare Scoccimarro, alle realizzazioni delle forniture per le catene Agip con Edoardo Gellner, fino a Gino Valle e Herbert Ohl a partire dagli anni ’60 e a Mario Broggi dagli anni ’70, i Fantoni fanno del rapporto artistico una costante. La tensione verso la bellezza è una lezione che si tramanda.
Accanto a quest’apertura culturale convive il carattere friulano, poco incline a fare mostra di sé, impegnato a costruire con dedizione. A ri-costruire, potremmo dire, dopo il terremoto del 1976, che distrusse tanto, compresa la casa avita dei Fantoni. L’evento traumatico, ci viene raccontato da Paolo Fantoni, paradossalmente, come un episodio propulsivo. In Friuli in poco tempo si ricostruì tutto “prima le fabbriche, poi le case e poi le chiese” secondo il detto popolare, che racconta quanto il lavoro sia considerato un valore. Il terremoto fu l’occasione per ricostruire meglio e poter pensare in grande per gli anni a venire.
La collaborazione di Marco Fantoni, padre di Paolo, con l’architetto Gino Valle ha visto nascere i nuovi insediamenti con un piano urbanistico di qualità e degli edifici ariosi, ricchi di spazi comuni e di servizi che permettessero alle persone di vivere bene sul luogo di lavoro. Quest’attenzione è evidente nella distribuzione degli spazi, nei dettagli costruttivi, nei prospetti dei corpi di fabbrica: si legge un piano chiaro del progettista e la convinzione del committente nel realizzarlo. Si sente viva, inoltre, una consapevolezza del ruolo imprenditoriale e della ricaduta sociale degli investimenti.
La Fantoni è un luogo umano in cui lavorare, nonostante sia anche un’enorme fabbrica: il suo sviluppo in pianta copre un”area di un milione di metri quadrati, di cui 240.000 coperti. Vi entrano le rotaie dei treni per portare tronchi e alberi interi, ne escono tir di pannelli ogni giorno.
A fronte di questa estensione ciclopica dell’azienda, a sorpresa, l’ufficio di Paolo Fantoni è di pochi metri quadri, le pareti sono trasparenti, la sua scrivania uguale a quella di tutti i suoi dipendenti.
La Fantoni produce anche mobili da ufficio, quindi sarebbe giustificato l’utilizzo di arredi direzionali, ma è l’understatment a prevalere. La sobrietà dei comportamenti, che ha caratterizzato il rigore amministrativo della ricostruzione, si ritrova nell’utilizzo sapiente di materiali poveri per le architetture.
La coerenza intrinseca del progetto non prevede ostentazione, nessuno l’ha mai richiesta.
Gli sforzi della famiglia sono stati diretti a obiettivi concreti: a creare coesione al proprio interno, a verticalizzare la produzione per essere indipendenti da costi di trasporti delle materie prime e dei lavorati, a integrare competenze umane, acquisendo divisioni di produzione.
L’antica falegnameria evolve nella Fantoni Arredamenti, cui si aggiungono la Plaxil per la produzione di pannelli di truciolare negli anni ’60 e poi lo sviluppo della produzione di MDF a fine degli anni ’70 a seguito della frequentazione dei mercati americani. Questo nuovo materiale (il Medium Density Fiberboard) permise la creazione di arredi innovativi, contraddistinti dalle laccature bianche e nere, che caratterizzarono gli anni ’80 e portò a sviluppare un’attività di servizio e di comunicazione a supporto della progettazione.
Il successo di questa produzione impose la nascita di nuovi stabilimenti e acquisizioni strategiche di filiera, dai semilavorati nobilitati, ai laminati (CPL), ai collanti, alla produzione indipendente di energia.
La continua ricerca porta alla produzione di pannelli fonoassorbenti negli anni ’90 e all’introduzione dei concetti di riciclo e di sostenibilità. Oggi le produzioni avvengono in più stabilimenti integrati in Italia, Serbia, Slovenia, impiegano 1050 dipendenti per realizzare un fatturato di 360 milioni di euro.
Lo sviluppo dell’azienda viene raccontato all’interno dell’archivio famigliare, un museo vero e proprio, accessibile per gli studiosi, ricavato nella residenza realizzata dopo il terremoto; una moderna abitazione d’impronta scarpiana.
Questo è il regno della madre di Paolo che con perseveranza ha raccolto i reperti rimasti e ogni testimonianza della vita dell’azienda, dai prodotti ai documenti più minuti, alle campionature dei legni provenienti da ogni parte del mondo. Un lavoro di un’esattezza meticolosa e appassionata che prosegue indomita, nonostante l’età avanzi.
L’indeterminatezza del contributo artistico e la precisione di grandi obiettivi industriali convivono in questo percorso, elegantemente, in modo sobrio e naturale, come l’informale camicia bianca e la raffinata cravatta (ovviamente) blu del mio interlocutore.
Story . Luisa Bocchietto
Photo . Marco Bello