Bernard Khoury è uno degli architetti più interessanti sulla scena internazionale contemporanea. Nato e cresciuto a Beirut, figlio di una famiglia di architetti e designer modernisti, formazione locale e ad Harvard, superato il doloroso intervallo della guerra civile, l’architetto libanese ha aperto il suo studio in città, e in questo paradossale laboratorio mediterraneo ha dato forma a una serie di opere spiazzanti e di grande potenza formale. Recentemente è uscito il suo primo libro, “Local Hero”, un’appassionata auto-biografia e riflessione sul proprio lavoro. Lo abbiamo incontrato a più riprese tra Milano e Beirut, frammenti di un dialogo che guarda all’architettura come a un campo obbligato e amoroso di riflessione.
L.M.
Nella tua casa c’è un modello di legno dell’ultima opera di tuo padre che credo rappresenti bene la tua relazione con l’architettura vista come atto coraggioso, appassionato, per cui prendersi dei rischi e non cercare solo certezze.
B.K.
Dietro quest’oggetto c’è molto di più della sua storia. La forma architettonica è importante, e la generazione di mio padre conosceva molto bene il ruolo e la funzione della composizione di forme. Ma ciò che rende questo edificio interessante è la vicenda coraggiosa che racconta di una breve fase politica in cui la giovane repubblica libanese era rappresentata da inedite architetture moderne.
Poi tutto questo è finito negli anni Settanta. L’edificio è il risultato di quel momento e di un atteggiamento che oggi sarebbe impossibile. Mio padre aveva immaginato un’opera di architettura costruita unicamente per accogliere i pezzi di design costruiti localmente. Un’idea di modernità che non rinunciava alla propria anima artigianale e all’affermazione della propria autonomia. Malgrado le guerre mio padre lo completò e poi fallì. Le banche rilevarono l’edificio per coprire i debiti, ma la sua unicità lo rende un manufatto resistente e inutilizzabile, se non per mostrare design, mobili e opere d’arte.
L.M.
Guardiamo al tuo lavoro. Le tue architetture sono opere coraggiose e autonome, edifici resistenti in città, in una situazione di boom edilizio senza regole.
B.K.
Prima di tutto vorrei fare una precisazione sul termine “autonomia”. Io non credo all’autonomia della professione, ma semmai cerco di comportarmi come progettista indipendente.
I miei veri alleati non sono nella pratica dell’architettura, ma sparsi nelle situazioni più improbabili per il mio lavoro. Non è stata una scelta, ma un’opportunità che ho raccolto con piacere perché molte di queste alleanze sono diventate amicizie importanti.
Io credo molto nella radicalità concreta delle mie opere. Bisogna affrontare le questioni pratiche, quotidiane del progetto con una forma continua di ossessività specifica, necessaria per andare oltre la superficie delle cose, costruendo strategie che cambiano a seconda della specificità delle situazioni.
Beirut ti obbliga a quest’approccio perché non esiste alcuna piattaforma comune di consenso e regolamenti. Viviamo in un Paese in cui lo Stato è fallito e dove non esistono forme condivise capaci d’indirizzare la crescita della città.
L.M.
Mi vorresti dare alcuni esempi di quest’approccio?
B.K.
I progetti per l’intrattenimento che ho realizzato all’inizio della mia carriera sono stati pensati come macchine complesse su piccola scala. Tu costruisci per clienti con forti personalità ma insieme devi dare forma a lavori pubblici, che impressionino immediatamente. Credo che in questo abbiamo fatto bene. Tutte queste opere erano state pensate per durare poco, e oggi sono ancora lì, funzionanti e con una vita di tre volte superiore alle aspettative iniziali. Sono opere pragmatiche perché funzionano bene in simbiosi con i loro committenti, ma contemporaneamente sono progetti radicali, che prendono posizioni forti sulle questioni politiche del mio Paese e della sua storia recente. Queste opere poco corrette, realizzate in luoghi potenzialmente sbagliati e in un momento storico drammatico, reagivano a una forma di amnesia crescente imponendo un punto di vista scomodo, lavorando sulle ferite aperte al punto da essere poi diventati dei paradossali feticci.
Ma se poi ti muovi all’ambito residenziale, come ho fatto in seguito, non ci si aspetta che quelle opere abbiano un impatto politico, perché stai realizzando il lavoro con il maggior consenso, per la porzione più grande di persone e con i risultati commerciali migliori.
Negli ultimi decenni sono state imposte dal mercato poche varianti di tipologie abitative che hanno isolato sempre di più ogni singola abitazione dalle altre e dalla città intorno.
Io ho cercato di ripensare il modo di muoversi nella casa, obbligando gli abitanti a utilizzare i balconi come dei veri ballatoi di collegamento, aumentando le relazioni con i vicini, con la voglia di creare nuove relazioni e di crescere cittadini differenti. All’inizio queste idee non erano accettate perché sembravano andare contro le logiche di mercato, ma poi, collaborando con alcuni giovani imprenditori siamo riusciti a realizzare le prime abitazioni che ebbero un enorme successo. Noi abbiamo lavorato su quella parte apparentemente minoritaria del mercato che invece si sta dimostrando importante.
L.M.
Spesso tu parli della necessità di pervertire la pratica dell’architettura. Cosa intendi con questo termine così poco abituale?
B.K.
Si tratta di una parola che ha un valore positivo. Fare scelte che all’inizio hanno un valore di profonda trasformazione e che progressivamente vengono accettate fino a diventare luogo comune. Siamo continuamente a confronto con una serie d’immagini regolate che sono state imposte dall’industria delle costruzioni, si tratta di elementi “normali” che attraversano la nostra vita senza che vengano più messe in contraddizione. La mia idea è quella di pervertire l’immagine iniziale in qualcosa di diverso, come ho fatto ad esempio nell’architettura residenziale. Si tratta di ripensare gli usi e le occasioni che abbiamo per trasformarle in situazioni dove cambiare radicalmente il punto di vista. Questo è un territorio molto promettente che l’architettura dovrebbe esplorare con maggiore interesse.
L.M.
Si ha spesso l’impressione che dai tuoi lavori emerga la voglia di reagire a un processo diffuso e rischioso di appiattimento delle differenze e della ricchezza insita nei luoghi che viviamo.
B.K.
E questo mi sta portando sempre di più a dare importanza alle questioni locali, avendo l’abilità di andare oltre la visione stereotipata del territorio e cambiando il ruolo dell’architetto. L’attore locale ha un angolo di percezione del territorio che è fondamentale. È colui che lo conosce a fondo, consapevole delle sue problematiche e ricchezze.
Il territorio d’origine ti mette in condizione di avere posizioni forti che all’esterno non potresti avere. Il locale deve essere guardato con maggiore attenzione e serietà dal mondo dell’architettura, ben oltre all’appiattimento delle star del consenso che stanno segnando questo momento. Oggi sono orgoglioso di essere locale e delle occasioni che posso costruire nel mio territorio che mi consente una sicurezza, arroganza e convinzione che nasce dal luogo che conosco così bene.
L.M.
Quindi potremmo guardare a Beirut come a un laboratorio universale e locale.
B.K.
Se oggi vogliamo produrre reali contenuti in architettura dobbiamo ripartire dal locale. Se vogliamo ancora pensare che l’architettura sia un atto politico, e io lo voglio fermamente considerandomi uno degli ultimi, veri romantici, dobbiamo andare oltre i limiti della nostra pratica contro la costruzione di un consenso piatto e diffuso che non rappresenta la città e la sua vita, cercando di entrare con ossessione specifica nelle pratiche e problemi particolari da risolvere. Questo ci obbligherà a un punto di vista diverso, cominciando a produrre significati nuovi. Essere locale vuol dire oggi poter essere un autore rilevantemente internazionale.
Interview . Luca Molinari
Photo . Piero Martinello