Benedetta Tagliabue

Questo dialogo avviene con Benedetta Tagliabue, socia fondatrice, insieme al marito Enric Miralles, dello studio EMBT con base a Barcellona e una delle realtà più interessanti e vitali della scena contemporanea spagnola e internazionale.
L’occasione è la grande mostra appena aperta a Roma e dedicata ai lavori pubblici dello studio oltre che al ruolo di Miralles, prematuramente scomparso nel 2000.


LM:
Questo è un dialogo tra me, te e anche con il nostro amato Enric (sempre, commenta BT). Mi fa piacere fare questo dialogo a pochi giorni dall’inaugurazione della mostra Trame della memoria. Interventi architettonici sul patrimonio di Enric Miralles e Benedetta Tagliabue, 1992-2022. Ci vuoi raccontare un po’ di questa mostra, della sua anima, di cosa racconta, di cosa è composta?

BT: È una mostra sul tema della “continuità”. È all’Accademia di Spagna di Roma, al Gianicolo, dove c’è il tempietto di Bramante che è un luogo fantastico, favoloso ed è un luogo dove fra l’altro abbiamo già esposto con Enric nel 1995 e poi abbiamo esposto un’altra volta nel 2011, quindi è un luogo che amo tanto e ricordare tutta la nostra traiettoria, quando abbiamo iniziato con Enric fino ad oggi, era un po’ un esercizio molto carino da fare nell’Accademia di Spagna, dove abbiamo fatto questi lavori insieme tanti anni fa. Tra l’altro, nostra figlia Caterina, che era nella mia pancia nel 1995, è la curator di questa esposizione, ha fatto tutto l’allestimento, quindi è una continuità viva, assolutamente vera. Però la continuità non è solo del nostro studio, del fatto che iniziamo con Enric che ci lascia nel 2000 e continuiamo a lavorare come se lui fosse sempre accanto a noi. È anche una continuità nella storia: l’Accademia di Spagna a Roma sta cercando di rinnovarsi, di fare chissà un ampliamento delle proprie strutture e fare questo a Roma o in Italia è di una grandissima difficoltà perché il tema del patrimonio è un tema meraviglioso però a volte blocca nell’architettura, quindi su richiesta dei committenti dell’Accademia di Spagna era “raccontate della vostra attitudine come architetti quando avete a che fare con il patrimonio” e quindi sono ci sono tutti progetti che hanno a che fare con il patrimonio in diverse maniere.

LM: Da italiana che si è formata tra Venezia e Milano, per te la parola “continuità” è anche una parola carica di senso. Se pensi a Ernesto Nathan Rogers con l’esperienza Casabella-Continuità, “continuità” è una parola che per noi italiani, europei, mediterranei ha un senso molto profondo, denso, non è unicamente una continuità generazionale o linguistica ma è proprio un modo di appartenere ai luoghi.

BT: È vero, è una necessità. È una parola che ho imparato anche con la nostra tradizione architettonica con Ernesto Rogers. E poi è una parola che ho dovuto sperimentare sulla mia pelle e quindi ci credo moltissimo perché veramente è stata la strategia che ho utilizzato durante questi anni, sempre. Questo cercare di mettere insieme le cose, di avere una continuità con il luogo, con il passato, con i momenti. Per me è una parola molto chiave.

LM: È vero che avete una serie di progetti che hanno storie con i luoghi quindi nella mia mente ce ne sono tanti, ma quali sono i progetti che in qualche modo definiscono le tracce in questa mostra, le headlines?

BT: Con Caterina abbiamo fatto anche una considerazione, ovvero che ogni volta che parlo di progetti che hanno a che vedere con la storia come Santa Caterina, il Parlamento di Scozia, Utrecht che è nel centro storico della città, per me il luogo dell’esperimento, dove tutto questo si è provato, è casa nostra, quindi casa nostra, nel centro storico di Barcellona, che avevamo promesso di non pubblicare perché l’abbiamo fatta solo per noi, è diventata invece la semente, la parte generativa di una serie di progetti pubblici. Con nostra figlia Caterina siamo riusciti a immaginare un’esposizione dove la casa è su tutte le pareti delle sale dell’Accademia di Spagna, è stata messa da gente che mette di solito i cartelloni in strada (sono stati molto carini). E tutti questi cartelloni delle immagini della casa sono rotti, come quando succede per strada, però quando rompi il cartellone trovi un’altra immagine della casa e un’altra ancora. Questo ti ricorda molto quello che succede per strada, questo palinsesto di strati storici che abbiamo trovato e con cui abbiamo convissuto. Questo diventa lo sfondo di tutti gli altri progetti e con questo sfondo della casa, che è come la nostra continuità, la nostra referenza, si presentano il progetto di Santa Caterina, di Utrecht, del Parlamento di Scozia, tutti con disegni anche origianli, molti mai visti e mai neanche pubblicati, e poi seguiamo con i progetti fatti senza Enric come il porto di Amburgo, che ha un altro tipo di referenza storica ma altrettanto importante, oppure la nuova chiesa di Ferrara che ha anche la presenza della città italiana. Poi, fuori nel cortile sono presenti come frammenti il lungomare di Rimini, l’edificio che abbiamo fatto nell’ospedale modernista di Sant Pau a Barcellona, il Padiglione di Shanghai in Cina, qualcosa che abbiamo fatto a Parigi e tante piccole cose a Roma.

LM: Tra l’atro la vostra casa, lo so, come per moltissimi architetti e per voi ancora più speciale, è stato un luogo di sperimentazione continua. La vostra casa è nel barrio gotico, in una parte della città colonizzata lungo i secoli e quindi immagino che lavorare sulle pareti significa ritrovare tracce. Ci vuoi dire, visto che poi vedremo le immagini strappate sulle pareti, che cosa ha costituito il progetto della casa dove tra l’altro ora sei?

BT: Sì io sono qui con una parte dipinta, un’altra lasciata così com’era con le pitture antiche. La casa per noi è stata un po’ una scoperta della parte antica. Io ero venuta a vivere a Barcellona perché mi ero innamorata di Enric e avevo vissuto a Venezia e a New York. Io ed Enric c’eravamo conosciuti a New York in questi meravigliosi loft che nell’epoca erano la nuova maniera di vivere e qui, a Barcellona, Enric mi proponeva di vivere in luoghi si usavano di più come l’Eixample, quei luoghi molti organizzati ma io non mi trovavo bene, avevo bisogno di un po’ di storia, di qualcosa più da scoprire e insieme abbiamo scoperto questi edifici abbandonati nella parte antica della città, negli anni Novanta era così. Abbiamo trovato una casa che ci dicevano essere pronta per essere tirata a terra e invece di buttarla a terra l’abbiamo scoperta ed è stato un lavoro davvero meraviglioso che per noi due è stato bellissimo perché insieme abbiamo fatto questa scoperta di cosa significava questa casa, cosa c’era sotto ai muri distrutti, togliere tutti gli elementi del magazzino perché l’avevano trasformata in un magazzino. Pensare che se fosse stato una casa antica avremmo potuto usarla in un loft perché ormai non c’erano più i muri, come mettere i mobili, come fare queste striscie di pittura e non pittura sul muro in maniera che c’era sia il contemporaneo che lo storico e qui abbiamo trovato tante cose che pensavamo non fossero importanti e invece erano molto importanti.

LM: Sarebbe giusto dire che la vostra casa è stato uno dei vostri primi laboratori di progettazione?

BT: Io credo di sì e prima ancora direi il laboratorio che ci dà la possibilità di agire in tanti progetti diversi, più grandi, più importanti, più pubblici, e dove però c’è questa forza della casa, di quello che abbiamo scoperto nella casa sotto.

LM: Come era lavorare con Enric? Io l’ho conosciuto, l’ho visto lavorare in studio, insegnare in università, ho avuto dei frammenti della sua capacità incredibile di lavorare insieme agli altri e di usare la sua genialità per rilanciare ogni volta, però nel quotidiano, nel tavolo di lavoro, come era lavorare insieme a lui? Su progetti che poi erano delle vere e proprie sfide?

BT: Quello è fantastico, sì e tutti lo cerchiamo. Cerchiamo un tipo di architettura che rimane sempre presente e questo sarebbe meraviglioso. Lavorare di fianco a Enric era qualcosa di molto speciale perché trasmetteva questa sua speciale capacità, speciale attenzione. Lui si divertiva veramente a fare architettura però aveva una cosa meravigliosa. Era molto individuale, speciale, ma aveva sempre bisogno di qualcuno di fianco con cui condividere tutto il tempo ed era importante questo punto della condivisione. La sua mano era talmente unica e artistica che io non avevo mai voglia di mettere un’altra linea sulle linee di Enric però si poteva molto offrire alternative, commentare, era di una sensibilità incredibile. Anche solo a volte e non solo con una parola ma un’occhiata, lui già cambiava perché magari l’occhiata non era andata bene, non aveva visto entusiasmo e con Enric era veramente un dialogo molto sottile.

LM: Questo mi interessa molto. Una delle cose che non si può dire della vostra architettura è che non manchi di personalità.

BT: È vero. Io credo molto nella personalità delle cose. Credo che le cose abbiano un’individualità e la debbano rivelare, raccontare per poter diventare universale. Secondo me è così e quindi su questo concetto cerchiamo di fare la nostra architettura senza aver paura che abbia una personalità troppo marcata. In effetti è una personalità che cerca di ammettere le voci degli altri, di capire, fatta anche collettivamente con intelligenza e scelta, non è che ammetti tutto, quindi credo molto nell’importanza di avere una personalità propria, proprio per essere parte della società. Se no non lo si è.

LM: Un’architettura può avere una forte personalità ed essere contemporaneamente molto accogliente. Non è vero che la responsabilità è respingente , c’è questa cosa che è poi la malattia del Novecento, che è poi che l’architettura degli architetti è sempre un po’ narcisista, tieni le persone lontane eppure se l’architettura ha una capacità di essere accogliente, è calda, unica e domestica e diventa un luogo di meraviglia, un luogo dove ti senti accolto e abbracciato.

BT: In realtà le voci degli altri, degli altri architetti, delle influenze che abbiamo avuto, sono presenti dappertutto. Sono architetture fatte, cioè l’immagine era sempre questa. Enric quando disegnava aveva sempre 1 o 2 o 3 libri aperti davanti; quindi, vuol dire che sono fatte sempre in compagnia di molte voci e questo si nota e a volte lo scopro ancora. Quando fai qualcosa di molto personale in realtà sei anche molto in comunicazione con tante altre voci.

LM: Vorrei tornare un attimo all’Italia. Oltre alla vostra relazione, tu ed Enric avete avuto un dialogo molto forte con l’Italia e questa cosa continua anche oggi, per esempio pensavo al progetto della chiesa di San Giacomo a Ferrara, il progetto che state finendo al centro direzionale di Napoli, oltre allo sfortunato concorso vinto per l’ampliamento dello IUAV alla fine degli anni Novanta e tante altre cose fatte. Che relazione c’è stata tra Enric e l’Italia?

BT: La relazione di Enric con l’italia è nata quando ha iniziato a fare architettura. Durante gli anni in cui studiava, che erano gli anni Settanta, c’era una migrazione verso l’italia come il luogo in cui comprare libri, entrare in contatto con le nuove tendenze perché qui era ancora un mondo franchista o che stava uscendo piano piano dal franchismo, quindi una limitazione molto grande del conoscimento. Per Enric veramente scoprire di più sul mondo dell’architettura è stato attraverso l’Italia perché è venuto al corso Andrea Palladio, per lui il corso CISA è stata una meravigliosa esperienza di insegnamento, oppure anche agli ILAUD di Urbino, Siena. Poi, aveva letto tanto e alcuni colleghi mi raccontavano di questi viaggi che facevano in macchina solo per andare alla libreria Cluva a Venezia, e tornavano con la macchina piena di libri, un mondo diverso dove si capisce che l’Italia era un mondo importante. Poi trova me e io sono italiana, quindi cominciamo a parlare in italiano, fa l’esperimento di questo linguaggio che aveva imparato sui libri comprati e cominciamo ad avere anche queste referenze del mondo più mio, più italiano. Abbiamo fatto il concorso di Venezia veramente come l’occasione per ritornare nel luogo dove io ho studiato, è stato molto bello e poi continua per me l’importanza di avere l’Italia come luogo che conosco. Adesso, per esempio, la chiesa di Ferrara non sai come mi ha fatto felice. La Chiesa di Ferrara è bella, mi piace molto (mi incuriosisce molto, commenta LM) e Ferrara è tra l’altro il luogo dove sono andata in viaggio di nozze con Enric perché Ferrara è una città magica, bellissima, non è né Venezia, né Bologna, è nel mezzo, ha una personalità sua, ha degli artisti fantastici. Anche per esempio fare il lungomare di Rimini sembra un’occasione stupenda per conoscere di più della città, per vedere la Rimini romana, Leon Battista Alberti, anche andare a vedere Fellini, riguardarsi i film, è meraviglioso. E ora a Milano stiamo facendo due progetti, uno per il Salone. Portiamo questi mobili che tu hai citato e che abbiamo disegnato per la casa. Sono mobili che si muovono, che vengono da questo mondo della casa che volevamo occupare però con rispetto; quindi, cosa di meglio di qualche cosa che si possa muovere per non invadere troppo, cioè se non ti piace lo metti qua, se non ti piace lo metti là, e questa è una cosa carina che non avevamo mai considerato, non li abbiamo mai fatti vedere, non li abbiamo mai presentati nel loro dettaglio. Invece adesso a Interni presenteremo questi mobili, ci sono quelli della casa, quelli che abbiamo fatto per altre occasioni, come per un congresso Alvar Aalto c’è un mobile stupendo. E poi c’è un mobile specialissimo, un tavolo che Enric aveva disegnato e lasciato nel suo quaderno e non me l’aveva mai comunicato. Io l’ho trovato per caso pensando che fosse un previo dei mobili che avevamo a casa e poi guardando con più attenzione mi sono resa conto che era un mobile forse pronto per fare un regalo a me vent’anni dopo, tutto misurato ed è una tavola fantastica, quindi il 6 giugno, quando apre il Salone, ci sarà una grande presentazione di questi mobili ballerini.

LM: Il numero di cui sarai in copertina è legato a uno dei sensi perché quest’anno ci dedichiamo ai sensi e al tuo numero c’è legato il senso dello smell, degli odori, dell’odore dei luoghi perché ogni città, ogni luogo ha un suo odore. Tu nel tuo lavoro dai un’enorme importanza all’uso dei materiali, della forma, delle decorazioni, della dimensione sensoriale che si fa forma. Cosa vuol dire per te lavorare con tutti i sensi nei progetti? Cosa vuol dire per te applicare questa cosa in una progettazione che sia circolare, come tu fai spesso?

BT: È molto importante. In realtà quando dicevamo che collaborare con Enric non era proprio disegnare sopra, era più che altro avere esperienza insieme, comunicare a molti livelli perché alla fine quello a cui serve un disegno è far arrivare poi un elemento che deve servire per tutti i sensi, tutti quanti, tutti quelli che noi siamo capaci di capire. Mi piace molto che ci hai dato l’odore come uno dei sensi e uno dei sensi è anche lo stare bene e questo è uno dei sensi che in questo momento stiamo curando di più. È un senso di confort, di sentirsi accompagnati, che appartiene alle cose e ai luoghi, e ai disegni e questo è un lavoro che evidentemente bisogna fare con molta attenzione, molta umiltà, perchè non è affatto facile trasformare quello che è un concetto indicato dalle linee di un disegno in qualche cosa che poi ti possa dare tutte queste sensazioni. Per esempio, una delle sensazioni che racconto tanto nella chiesa di Ferrara è una sensazione che ci raccontava il liturgista, questo fantastico personaggio che deve condurre l’architetto o l’artista verso l’interpretazione del rituale. Dice che una delle cose fondamentali per l’architetto, quando ha fatto la chiesa, è sapere se è riuscito a raggiungere questo senso del “sacro”. L’odore è qualche cosa di molto volatile però il senso del sacro lo è ancora di più e allora lui diceva che è molto semplice: per esempio se un bambino con una palla, perde la palla in chiesa e corre per riprenderla, quando passa la soglia si ferma perché lo spazio gli ha dato una sensazione per la quale non può più giocare a palla, questa è la prova se lo spazio funziona come sacro o no, però capisci che tu la costruisci e fino alla fine dici “spero che funzioni”.

LM: E funziona? I bambini non entrano a giocare a palla in chiesa?

BT: Secondo me funziona. Adesso dobbiamo provarlo veramente dando la palla a un bambino.

Testo di Luca Molinari

 

Didascalie e crediti fotografici (dall’alto in basso)

– Ritratto di Benedetta Tagliabue, Photo © Ferran Nadeu
– Scottish Parliament in Edinburgh – Ph. courtesy of EMBT
– Centre Kalida St. Pau – Ph. Luc Miralles
– Interior of the Miralles House – Ph. Wianelle Briers
– Metro Station Napoli – Ph. P. Fassoli
– Public spaces in Hamburg – Ph. Thomas Hampel
– Church San Giacomo Ferrara – Ph. Marcela Grassi
– Mercado de Santa Caterina – Ph. Roland Halbe
– Mercado de Santa Caterina – Ph. Alex Gaultier

Cliccate qui per acquistare il nuovo numero di Platform Architecture and Design