Adam Nathaniel Furman

Incontriamo Adam Nathaniel Furman, che partendo dalla sua esperienza di architetto Queer ci racconta cosa significa, oggi, fare discussioni politiche attraverso l’architettura.

L: Recentemente hai pubblicato un libro che si intitola “Queer Spaces an Atlas of LGBTQIA of Places and Stories”. È molto importante parlare di spazi queer in questo momento, è una sfida dura ed impegnativa sia dal punto di vista progettuale che critico. Partendo dal libro, vorrei che ci parlassi del motivo per cui l’hai fatto e di cosa significa essere un architetto e fare discussioni politiche attraverso l’architettura.
A: Il libro “Queer space” è stato curato insieme a Joshua Mardell, architetto e storico, ed è pubblicato dal Royal Institute of British Architects. Conta 55 collaboratori, quindi c’è una moltitudine di autori nel libro. È stata un’impresa piuttosto epica negli ultimi tre anni.
Il motivo per cui è nato è che sono queer, come altri molti designer che lo sono stati ma di cui non hanno mai parlato, l’hanno nascosto o mantenuto come un aspetto privato della loro vita senza trasportarlo nel loro lavoro di progettazione.
Ho frequentato il liceo negli anni ’90 a Londra, facendo outing a 15 anni. Ho vissuto e mi sono formato quando era in vigore l’articolo 28, una legge del governo di Margaret Thatcher che obbligava le autorità locali a non promuovere intenzionalmente l’omosessualità e che ha definito molto l’esperienza delle mie generazioni di crescere gay o queer. Sono stato violentemente vittima di bullismo, e sono stato salvato – letteralmente la mia vita è stata salvata – dagli spazi gay, come venivamo chiamati all’epoca. Ho studiato per gli esami di maturità in un pub gay bevendo tè seduto al tavolo vicino alla cucina, e lì le persone mi hanno insegnato che non ero disgustoso e che non meritavo di essere picchiato. Lo scenario gay in quegli anni era molto espressivo, ed anche molto arrabbiato con continue proteste contro l’articolo 28. Nel 1990 ci fu persino un attentato dove alcune persone furono uccise. Ma allo stesso tempo c’era anche uno scenario incredibilmente vivace di locali notturni, negozi, feste, ristorante, tutti in fase di progettazione. L’estetica era una componente molto forte e potente di questo desiderio di esistere nello spazio. L’estetica visiva di questo tipo di identità era molto importante per me. Poi mi sono iscritto alla facoltà di architettura. Ho combattuto molto e molto forte contro la ristretta e razzista visione dell’architettura, in cui la mia idea era considerata ridicola o superficiale, e per questo respinta. Poi, nel 2017, sono stato invitato a tenere un simposio queer di architettura e design all’università di Berklee, in California. Per la prima volta nella mia vita, ero in una stanza di persone con un background architettonico, e tutti eravamo rispettosi l’uno verso l’altro. È stata l’esperienza più liberatoria della mia vita, non dovevo più lottare per il diritto di essere lì. Dopo sono stato invitato ad Harvard per un simposio simile, e poco dopo ho scritto “Outrage: the prejudice against queer aesthetics”, una colonna sull’estetica queer per The Architectural Review. Poi è nata l’opportunità di questo libro sul canone queer dell’architettura degli ultimi 250 anni. È un progetto molto significativo, anche per gli studenti, perché dà loro la possibilità di avere una storia del loro desiderio intertestuale di lavorare con temi queer. Significa essere presi sul serio e poter usare questo libro come riferimento.

L: Leggendo il tuo testo ho pensato a quanto sia necessaria oggi qualsiasi forma di sovversione intelligente, un modo per cambiare i punti di vista. Stiamo vivendo uno dei periodi più noiosi della storia dell’architettura contemporanea.
A: E uno dei più eccitanti e folli!

L: Sono completamente d’accordo con te. Il mondo sta producendo domande intense e radicali e stiamo vivendo un periodo straordinario della nostra storia, ma nel frattempo l’architettura è il punto meno interessante di questa storia, qualcosa sembra non funzionare. Il tuo lavoro è quindi fondamentale perché è impegnativo, forte e vibrante. Vorrei che mi spiegassi cosa significa per te collegare il queer all’architettura e allo spazio, che non si tratta solo di essere post promo o di usare colori o forme.
A: Che in un certo contesto è parte integrante di tutto ciò.

L: Come spieghi l’idea fondante dell’architettura queer a un vasto pubblico? Credo sia importante definire il contesto per condividere e discutere, per uscire dai ghetti culturali e mentali. Da una situazione laterale e marginale si passa ad una posizione centrale: non più parlare del tavolo accanto alla cucina, ma essere al centro del pub, o di uscire dalla stanza.
A: Ho appena fatto domanda per diventare uno dei collaboratori di design per il sindaco, ma non è successo, ed ho ricevuto un’e-mail in cui mi si diceva che fosse stata una decisione difficile. La mia candidatura era la conseguenza del desiderio di essere sui tavoli dei decisori, entrare a far parte di quella discussione e contribuire a generare un serio cambiamento a livello metropolitano ed istituzionale. Concerne alla domanda sulla definizione di architettura queer, solitamente evito di usare la parola architettura queer in modo specifico. La questione non è come progettare spazi per le persone queer, ma come controllare la forma di una prospettiva architettonica per uno spazio che sia buono per tutti gli utenti. Il libro prova a dimostrare in una chiave anti-Venturi ed anti-tradizionale che è importante usare una moltitudine di voci.

L: Certo, non è un manifesto.
A: Lo è, ma non è uno, è una moltitudine di manifesti. Ammetto di adorare una sorta di filone borghese occidentale che prevede la creazione di mondi alternativi. Il primo desiderio, a partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento in poi, è il desiderio di fuggire da un mondo che vuole ucciderti o semplicemente non ti permette di essere come sei. Esiste una tradizione di creazione di mondi alternativi, mondi nascosti, attraverso lo spazio, il design e l’ornamento, che culmina in figure come Ludovico II di Baviera. A differenza del gruppo razziale che nasce in qualcosa che ha una storia, essere queer significa essere come i rizomi, è difficile relazionarsi con il passato o avere un passato.
Le persone creano le proprie storie nei lori interni, è una costruzione di linguaggi, e molto spesso, soprattutto per gli uomini gay, l’ispirazione era nelle icone diva. Da Maria Antonietta fino a Versace, ornamenti, oggetti e decorazioni erano la rappresentazione di un mondo estetico nel quale sentirsi al sicuro. Non importa quanto potente diventi, c’è sempre qualcosa che ti riguarda perché non puoi mai essere veramente fuori dal gruppo con tutti gli altri, quindi crei questi mondi che proteggono te stesso.

L: Crei i tuoi mondi…
A: Sì. C’è un libro brillante intitolato “Bachelors of a Different Sort: Queer Aesthetics, Material Culture and the Modern Interior” di John Potvin, che è una sorprendente esplorazione di quattro o cinque esempi in Gran Bretagna tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. La sorpresa è l’appropriazione dei monumenti. Quello che scopriamo è l’avere gli stessi simbolismi del potere patriarcale, ovvero incarnazioni delle cose che opprimono le persone di diverse identità di genere. Per esempio, la Coppelia a L’Avana, la gelateria simbolo del periodo castrista, dove i colori dei gelati erano usati come simboli di diversi desideri sessuali. Oppure il Museo di Lenin a Mosca, figura che non ha criticato l’emancipazione sessuale, che per anni è stato sito di cruising. Qui si innesca il tema della riappropriazione dello spazio pubblico: i luoghi più ovvi diventano i luoghi queer dove incontrarsi al di fuori di orari insalubri. L’oscurità è molto spesso un punto in cui accadere.

L: Nell’estetista queer usare i colori è anche una specie di reazione all’oscurità.
§A: C’è un testo di Johanna Hedenskog sull’architettura queer che disseziona il colore come un’estetica che dipende da un luogo e da un tempo a cui reagire. La queerness scompone la contingenza e la specificità culturale.

L: Mi ha colpito la serie di installazioni che sono diventate un modo di lavorare con l’idea di libertà, usando il colore per ridefinire le identità dello spazio che stanno perdendo centralità per provocare qualcosa che sia un nuovo tipo di centralità sociale. Oltre il mondo mondo degli interni e del design che fa parte della tua ricerca e narrazione quotidiana, delle installazioni che sono simbolo di identità, stavo pensando al progetto del Boudoir Babylonia che hai realizzato in Australia.
R: Cerco di essere d’impatto; è stato bello avere queste commissioni temporanee perché è bello poter iniziare una conversazione con le persone. Le persone non amano il contatto online, amano nel reale contatto fisico del luogo in cui si trovano. Per questo motivo ho spinto molto all’interno di strutture di appalto più ampie, sia per i progetti governativi che per lo sviluppo privato, affinché possano incorporare il simbolismo, l’arte dell’identità e della rappresentazione. Il nostro tipo di spazio urbano non è un’espressione uniforme di una piccola parte della nostra cultura più ampia. Con il boom edilizio avvenuto a Londra, la decorazione artigianale, l’arte dell’ornamento è diventato un modo davvero importante per instillare cultura in ciò che costruiamo, per convincere le persone a relazionarsi simbolicamente con l’architettura della città. Ma la produzione di un’architettura contemporanea di buona qualità, definita da un piccolo numero di persone, non è più sufficiente. Hanah Aaron ha sempre parlato di come la città fosse uno spazio simbolico e che si costruisce ciò che si ritiene importante. Ma sono convinto che il cambiamento sia in atto qui in Regno Unito, la cultura, soprattutto tra le giovani generazioni, è forte e brillante. Stanno spingendo molto su tutti i tasti, sia per l’istruzione sia per ciò che scoprono quando escono per la loro professione. Credo molto nell’amore e nell’energia vitale che si sprigionano per creare qualcosa che permane nell’ambiente pubblico, perché le persone ne traggono sostentamento, e li sente.

Testo di Luca Molinari


Didascalie e crediti fotografici (dall’alto in basso)

– Ritratto di Adam Nathaniel Furman, Foto © Theo Deproost
– Ritratto di Adam Nathaniel Furman, Foto © Gareth Gardner
– Spazi Queer – Adam Nathaniel Furman
– Installazione della Turkish Ceramics Design Junction, Kings Cross – Foto © Gareth Gardner
– Installazione di Ceramica Turca Design Junction, Kings Cross – Foto © Gareth Gardner
– Boudoir Babylon dell’Atelier Adam Nathaniel Furman e Sibling Architecture – Foto © Sean Fennessy
– Boudoir Babylon dell’Atelier Adam Nathaniel Furman e Sibling Architecture – Foto © Sean Fennessy
– Boudoir Babylon dell’Atelier Adam Nathaniel Furman e Sibling Architecture – Foto © Sean Fennessy
– Piccole torri – Foto © Gareth Gardner
– Piccole torri – Foto © Gareth Gardner
– Piccole torri – Foto © Gareth Gardner
– Piccole torri – Foto © Gareth Gardner
– Radiance Chelsea & Westminster Hospital Reuben Maternity Centre – Foto © Gareth Gardner
– Centro maternità Reuben dell’ospedale Chelsea & Westminster – Foto © Gareth Gardner
– Queer de Triomf di Adam Nathaniel Furman

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