Lesley Lokko, Hope

LM
Quello che stai facendo con la scuola di Johannesburg è molto importante, perché la “speranza” è legata al futuro, che a sua volta è legato all’istruzione e alle giovani generazioni. Per questo volevo iniziare parlando della tua esperienza presso la GSA. Puoi raccontarmi qualcosa in più su come è nata la scuola e sulla direzione che intendi farle prendere?

LL
Credo che la prima cosa da dire – che è veramente importante nel contesto della formazione in architettura in Africa – è che il Sudafrica è simile, ma allo stesso tempo molto diverso, dal resto dell’Africa. Mi sento ripetere continuamente che “il Sudafrica non è Africa”, c’è del vero e del falso in quest’affermazione.
L’infrastruttura scolastica è già presente e le università sono relativamente ben finanziate, ma molte delle questioni che gli studenti sudafricani si trovano ad affrontare – dal canone sproporzionatamente occidentale ai metodi didattici obsoleti, fino alla mancanza di fiducia e alla ricerca di una voce autenticamente “africana” in architettura – sono le stesse che affliggono gli studenti in tutta l’Africa. La Graduate School of Architecture (GSA) dell’Università di Johannesburg è una delle scuole più recenti del continente, se non la più recente in assoluto, e ha una storia molto particolare che l’ha resa relativamente pronta per il cambiamento. La stessa Università di Johannesburg è una struttura nuova, frutto di una fusione tra un’istituzione totalmente bianca e un Technikon (equivalente a un istituto commerciale o tecnico) totalmente nero, per cui l’università è stata sempre pervasa da ideali politici progressisti.
Quando sono arrivata al Dipartimento di Architettura nel 2014, il programma di laurea era stato messo in piedi solo da un paio d’anni ed era ancora alla ricerca di una propria voce e della capacità di camminare sulle sue gambe. C’erano solo pochi studenti e non c’era una cultura o una tradizione consolidata, storica, ostile al cambiamento… quindi è stato possibile avviare qualcosa di nuovo e di vivo.
La seconda cosa che vorrei dire è che la cultura dell’attivismo politico è ancora molto viva nelle Università. Le proteste studentesche in Sudafrica del 2015 e del 2016 si sono fortemente cristallizzate su due temi: la trasformazione (il passaggio da una cultura dell’istruzione terziaria elitaria, bianca e molto eurocentrica) e la decolonizzazione (portare le idee africane all’interno del mondo accademico e dei canoni). In tutto il paese – e, per estensione, nel continente – si potevano avvertire il potenziale e la voglia di cambiamento nell’aria. Abbiamo semplicemente approfittato di questa voglia di attivismo e abbiamo creato alcune cose – un nuovo piano di studi, un modello pedagogico diverso affidato a un personale molto più giovane – che si sono rivelate già di per sé delle grandi trasformazioni. Improvvisamente, senza nemmeno averci provato, ci siamo trovati a mettere le esperienze, le storie e le culture degli studenti al centro del processo di apprendimento, una cosa che ha portato a risultati davvero inusuali e imprevedibili. Oggi, guardandomi indietro, mi sembra che questo cambiamento abbia sprigionato la voglia e l’entusiasmo per la creatività, aprendo nuove opportunità e sfide per i progettisti, e non solo per il desiderio di dedicarsi al problem-solving, che qui è stato il paradigma dominante dell’istruzione architettonica per decenni. Per me i tre anni appena trascorsi sono stati densi di speranze: la speranza di nuove voci, la speranza di una nuova mentalità, la speranza di un nuovo programma per l’educazione all’architettura, di certo in Sudafrica, ma anche in altri luoghi del continente.

LM
Nuove voci e nuovi obiettivi: credo che questo sia molto importante, visto che abbiamo bisogno di creare nuove presenze critiche e fortemente legate all’idea di una forma contemporanea di consapevolezza. Il Sudafrica è un paese molto politicizzato che chiede più democrazia, più uguaglianza e maggiori possibilità per tutti. La scuola si sta muovendo in un momento politico molto particolare, ma allo stesso tempo ci mostra come qualcosa sta emergendo in tutta l’Africa, visto che le disuguaglianze sono parte della drammatica situazione sociopolitica del continente.

LL
Vedi, è come se il cambiamento in Africa procedesse a due velocità: una parte di questi cambiamenti ha preso avvio sessanta, settant’anni fa con i “venti del cambiamento” che hanno sferzato il continente, a partire dal Ghana nel 1957. Le altre trasformazioni, più recenti, hanno avuto luogo negli anni ’90 nell’Africa australe, Namibia inclusa, dove la democrazia è arrivata molto più tardi. È anche importante tener presente che l’Africa ha subito due tipi di colonizzazione molto diversi: le colonie e i dominion. I dominion – Canada, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica e, forse in misura minore, l’ex Rhodesia e il Kenya – hanno un rapporto molto diverso con l’Europa e gli europei, che si stabilirono in quei paesi in un modo assolutamente diverso rispetto alle colonie (Ghana, Nigeria, Senegal, ecc.). Noi (e qui parlo in qualità di ghanese) non combattemmo mai quelle terribili battaglie sulla terra, la lingua, la cultura e l’identità che sono state combattute in paesi come il Sudafrica. Le disuguaglianze ereditate dall’era dell’apartheid sono radicate molto più in profondità nell’Africa australe rispetto al resto del continente e sono inestricabilmente legate alla razza, alla lingua e all’identità – aspetti che rappresentano il fulcro, la radice dell’essenza di un popolo. Le richieste politiche di cambiamento degli ultimi tempi – in particolare nel campo dell’istruzione – sono state più forti e più sentite nei luoghi dove la psicologia della colonizzazione ha causato i danni peggiori.
È una situazione contraddittoria da molti punti di vista: nei luoghi che hanno mostrato la più grande capacità di portare avanti il cambiamento (e mi limito all’istruzione), le ferite sono più profonde e quindi più dure da rimarginare. In molte altre parti del continente le cicatrici si sono rimarginate, ma le infrastrutture, dalle quali dipende completamente il successo dell’istruzione terziaria, semplicemente non esistono.
La situazione è proprio questa. L’Africa è ricca di potenzialità e di contraddizioni al tempo stesso. Ma invece di giudicare disperata questa situazione, come fanno in molti, ho scoperto che più ci troviamo di fronte a una situazione complessa e impegnativa, più la nostra reazione è creativa. Quindi, almeno dal mio punto di vista, le contraddizioni fanno parte di quella speranza di cui sono testimone. La tensione è una condizione necessaria per la creatività. E non sto parlando di una creatività eccentrica: sto parlando dell’innovazione, della capacità di pensiero laterale, di pensare fuori dagli schemi, di essere inventivi, propositivi e reattivi, non solo pragmatici e reattivi.

LM
Cosa pensi dei programmi scolastici che hai avviato? Quali sono gli elementi in grado di forgiare un nuovo atteggiamento critico?

LL
Il programma formativo che abbiamo intrapreso – ciò che chiamiamo Pedagogie Trasformative (un richiamo non proprio velato alle rivoluzionarie Pedagogie radicali di Beatriz Colomina) – non è composto da un solo elemento, ma è piuttosto una combinazione di diversi approcci. Da un lato, certo, c’è la necessità di cambiare la struttura di un sistema didattico da sempre fortemente modulare (insegnare l’architettura attraverso corsi su strutture, urbanesimo, metodologia, progettazione, ricerca… come se queste fossero questioni separate e indipendenti tra loro) in un approccio molto più sintetizzato e interdisciplinare, che combina, anziché separare, gli elementi dell’educazione architettonica. Ma dall’altro è anche necessario creare le condizioni per le quali quelle voci che non hanno mai avuto l’opportunità di esprimersi siano messe in condizioni di farlo nel segno della libertà, della creatività e dell’intuitività. Se sei una studentessa di architettura sudafricana e nera, resti sempre dolorosamente consapevole di tutte le cose che mancano: i modelli per gli allievi, una propria cultura, i propri punti di riferimento, un proprio canone. Ciò rende gli studenti – specialmente gli studenti neri, ma non solo i neri, devo dire – doppiamente insicuri, perché dovranno sempre fare i conti con queste mancanze e superarle di volta in volta, riguadagnare terreno, imparare a parlare la “lingua” – nel vero senso della parola – di qualcun altro. Fortunatamente negli ultimi vent’anni, specialmente in Sudafrica, la consapevolezza dei problemi dell’Africa e delle sue città in particolare, cioè le disuguaglianze e le richieste di giustizia sociale, inclusione, equità, informalità, condizioni di lavoro migliori sta crescendo sempre di più. Ma dal mio punto di vista, questa attenzione su un determinato aspetto dell’architettura ha tagliato completamente fuori dallo scenario molti altri aspetti: la storia, la riflessione e l’immaginazione, il ruolo della traduzione e del pensiero critico. Forse, però, la cosa più importante è che ha fatto dimenticare l’importanza dell’architettura non solo come mezzo per risolvere i problemi del mondo contemporaneo, ma come uno degli strumenti più importanti in mano alla società per dare forma al proprio futuro. Per quanto possa sembrare oltraggioso, mi è stato detto in molte occasioni che non c’è alcun motivo di insegnare agli studenti neri a essere riflessivi o critici, perché hanno bisogno di lavoro, non d’idee.
Credo che ciò che stiamo cercando davvero di fare è dare agli studenti la capacità e le possibilità di esprimersi con una voce che non sia quella di altri, offrendo loro un ampio spettro di possibilità per dedicarsi all’architettura in questo continente, anche se effettivamente siamo più concentrati sul contesto sudafricano. Ma abbiamo sempre più studenti provenienti da altre parti dell’Africa e il loro contributo e le loro esperienze hanno un valore davvero inestimabile, sia per noi, sia – si spera – per loro. Stiamo cercando, nel nostro piccolo, di “normalizzare” l’Africa, di mettere a disposizione degli studenti più strumenti, senza forzarli a perseguire a tutti i costi gli obiettivi dello sviluppo.

LM
Trovo questo aspetto molto interessante, perché noto un passaggio dall’idea del particolare all’idea dell’universale. Da un certo punto di vista, non del tutto sbagliato, i popoli africani si sentivano vittime del mondo occidentale, perché effettivamente è stato così, ma in un certo senso questa cultura del trauma delle vittime è diventata onnipresente… tutto era eccezionale in Africa, le tragedie, la povertà, gli abusi… e questa mentalità riduce notevolmente la possibilità di creare una distanza, quella distanza che ti aiuta a creare un apparato critico per vedere con occhi diversi il mondo, non solo in Africa, ma ovunque. Il mondo di oggi è super-connesso, non si può pensare esclusivamente al proprio paese.

LL
Certo, non c’è dubbio. Uno degli aspetti più dannosi della vittimizzazione è l’isolamento: la sensazione di essere così unici da non appartenere a un “quadro” più ampio e universale, o di essere talmente eccezionali che nessun altro ha il diritto di esprimere opinioni o partecipare. Qui ho riscontrato entrambi i fenomeni, specialmente per il fatto che non sono sudafricana. Ma a volte la distanza è l’unica cosa che ti permette di vedere le cose in maniera diversa. Negli ultimi anni ho notato che per gli studenti – e anche per i nostri collaboratori, a essere onesti, molti dei quali sono ancora giovanissimi – stabilire una distanza è un processo, come l’elaborazione del lutto. La mia opinione (e non sono uno psicologo!) è che queste fasi di elaborazione siano necessarie per giungere finalmente a una condizione di fiducia in sé stessi, di guarigione.
Credo che in questo contesto sia indispensabile capire che gli spazi o i luoghi della vittimizzazione non siano gli unici luoghi da cui si possa parlare. Se si mettono gli studenti fuori dal loro contesto – in altre parti dell’Africa o nel resto del mondo – questi sembrano conquistare la fiducia e la distanza necessaria per vedere sé stessi in modo diverso, e di conseguenza vedere il loro ambiente con altri occhi. La maggior parte dei nostri studenti si considera “agente del cambiamento” attivo, per citare uno dei miei colleghi, e questo fatto è stato uno degli aspetti più piacevoli dell’insegnamento nel corso degli ultimi due anni. Vedere gli studenti passare dall’essere destinatari passivi di nozioni all’essere collaboratori attivi nel processo di creazione di un nuovo canone è una cosa notevole. Naturalmente, l’appunto critico che si muove è sempre quello: le scuole d’architettura non si occupano della “realtà” o del mondo “reale” e seppelliranno le teste degli studenti nella sabbia delle metafore, rendendole inadatte alla pratica. Vedi, credo che la cosiddetta realtà sia un aspetto della formazione di un architetto, non c’è dubbio, ma sono anche fortemente convinta che l’istruzione sia fondamentalmente tenuta a formare o fornire agli studenti gli strumenti per affrontare le cose che vanno oltre le realtà tangibili, e in nessuna disciplina questo è più vero che in architettura. La disciplina architettonica è intimamente ancorata al passato e al presente, ma può usarli anche per riflettere o proporre qualcosa di nuovo. Per quanto mi riguarda, questo è proprio l’errore che compiamo con i nostri studenti africani, limitiamo la loro “dieta” ai problemi del qui e ora, costringendoli a guardare in basso invece che in alto.

LM
Sono completamente d’accordo con te sulla relazione tra essere visionari ed essere consapevoli della situazione attuale, che è l’equilibrio necessario per essere un architetto al giorno d’oggi.
Di recente gli architetti africani sono tornati a suscitare interesse: Francis Kéré firmerà il nuovo padiglione della Serpentine Gallery e penso che presto avremo il nostro primo premio Pritzker africano. L’Africa sta allevando degli architetti molto bravi e allo stesso tempo sta emergendo come un laboratorio di ricerca sull’ambiente umano di primaria importanza. Quale credi che sia l’elemento chiave che possa creare un’identità africana per l’architettura contemporanea?

LL
Certo, premetto che la lista dei nomi è fantastica, eccezionale. E sta crescendo: dieci anni fa potevi aver sentito parlare solo di David Adjaye. Oggi ci sono Kéré, Adeyemi, Diabaté, Shawl, Adengo e molti altri che si stanno facendo conoscere sulla scena mondiale. Tuttavia, quasi senza eccezione, tutti hanno studiato in Occidente, generalmente nelle scuole più prestigiose. Questo per me è un grande interrogativo: devi andartene da qui per diventare africano? Cosa hanno di diverso la formazione e l’istruzione “fuori” da aver offerto queste possibilità ai giovani architetti africani? Non sono tanto ingenua da ritenere che i contatti, i clienti e le commesse giuste non abbiano la loro parte, ma questo porta a un’altra questione che mi sembra molto interessante.
Quando lasci il tuo luogo di origine (o la tua casa) e ti avventuri nel territorio, nel paese o nello spazio di qualcun altro, spesso sei costretto a diventare un traduttore della tua stessa identità verso la “nuova” cultura nella quale ora sei immerso. Diventi un interprete. Interpreti il tuo mondo per gli altri, molti dei quali non l’hanno mai né visto né conosciuto di persona. Trovo che questa condizione interessante e tragica al tempo stesso. Interessante perché la traduzione offre sempre delle nuove possibilità: nuove combinazioni, nuovi significati e nuovi modi di esprimere le cose, che combinati danno vita a un linguaggio del tutto nuovo. Così la condizione di essere un outsider può offrirti delle opportunità straordinarie e innumerevoli (anche se non è sempre così, ci tengo a precisarlo). Ma è anche una condizione tragica, perché è una cosa incredibilmente difficile da fare: devi stare continuamente a spiegarlo agli altri, mentre stai cercando di capirci qualcosa tu stesso. È un po’ come uno studente che cerca di spiegare la fisica delle particelle a una classe delle scuole superiori mentre sta preparando l’esame. È quasi impossibile. Non puoi fare a meno dello spazio – nel senso letterale della parola – per mettere in discussione, riflettere, crescere, far sviluppare e maturare le idee. Così si produce conoscenza.
Quindi per me la cosa più importante è che ci sia una scuola di architettura che vuole davvero puntare all’eccellenza – anche le altre scuole, non dico che la GSA sia l’unica scuola a fare cose interessanti – e che questa scuola si trovi sul continente, proprio in questa parte che in fondo “non è davvero l’Africa”. Potrebbe non esserlo, ma di certo è più vicina di New York. Il mio istinto mi suggerisce che è più facile ritagliarsi questi spazi qui che non a Londra, in parte perché si può fare a meno di dedicare molto tempo all’esplorazione, anche se solo in parte.

LM
D’accordo, questa è davvero la mia ultima domanda: qual è la tua speranza alla luce dei risultati del tuo operato?

LL
La mia speranza è quella di costruire una scuola di architettura africana con una visione che sia locale, regionale e globale al tempo stesso, una scuola che consentirà a una generazione di giovani architetti di sviluppare una voce critica e forte. La mia speranza è questi ragazzi possano creare opere che rispondano con immaginazione, creatività e concretezza alle contraddizioni, alle crisi e alla complessità, così come alla comunità e alla cultura. La mia speranza è far crescere degli studenti capaci di pensare e agire in modo intuitivo, fiducioso e autentico.
La mia speranza è di sfruttare la forza e il potenziale incredibile di quei giovani uomini e donne ai quali insegniamo a produrre una cultura architettonica eclettica e diversificata, non solo in termini di edifici o progetti teorici, ma in termini di pensiero architettonico, di canone. Vorrei una nuova generazione di accademici che praticano e insegnano al tempo stesso. In altre parole vorrei normalizzare l’Africa per far sì che agli studenti africani si apra lo stesso ventaglio di opportunità e di riflessioni che gli altri studenti hanno già a disposizione.

Interview . Luca Molinari